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"Open Look" di San Pietroburgo apre lo sguardo sulla danza contemporanea internazionale

SAN PIETROBURGO – Se Londra non può essere paragonata al resto del Regno Unito, se New York non è esemplificativa rispetto agli Stati Uniti, lo stesso possiamo affermare per San Pietroburgo, la città degli architetti italiani, nei confronti della Russia. Un palazzo monumentale dopo l'altro, viali lunghi chilometri che tagliano la metropoli portuale sulla Neva. Ogni italiano arriva in quella che fino all'inizio degli anni '90 era chiamata Leningrado e inevitabilmente non può non pensare a Franco Battiato e ai suoi versi: “L’inverno con la mia generazione, le donne curve sui telai, vicine alle finestre, un giorno sulla Prospettiva Nevskij per caso vi incontrai Igor Stravinskij”. Impossibile non canticchiarla. Il cantautore catanese chiudeva con uno straziante e illuminante “e il mio maestro mi insegnò come Call 2.JPGè difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire” alludendo e inneggiando alle notti bianche raccontate anche da Dostoevskij. Parlare di danza contemporanea in Russia, patria della classica e del Bolshoi, poteva sembrare azzardato ma il festival “Open Look” (davvero uno sguardo aperto sul panorama mondiale della disciplina con compagnie invitate da Olanda, Polonia, Israele, Corea, Spagna, Inghilterra; nessuno dall'Italia) dopo venti edizioni, ideato dal gruppo Kannon Dance (direttore Vadim Kasparov e il suo braccio destro Albina Ismailova), ha consolidato il suo ruolo centrale e la sua forza nella diffusione della contemporanea. Platee affollatissime per la quasi totalità riempite da donne e ragazze.

E' un progetto che punta i piedi e s'eleva nell'antropologia e nell'etnologia, nella storia come nella linguistica il “Call of the Origin” dove in un ring di sabbia, la sabbia del passato che si deposita sulle cose, quella polvere sedimentata dal tempo, quella cenere alla quale torneremo, un danzatore-atleta-acrobata snodabile (il formidabile Nurbek Batulla) accompagnato da tre cantore-aedi e tre musicisti, ha rievocato l'alfabeto scomparso della sua regione, cancellato dalla globalizzazione e annientato alla lingua e cultura dominante russa. Il suo è un recupero materico delle tradizioni, della famiglia, del sangue, in mezzo a questo fango stilizzato, a questa arena che diventa ambiente amniotico ed esoterico, magico e biblico, dove far riaffiorare con i gesti di questo corpo scultoreo e marmoreo lettere di una scrittura morta, sepolta sotto i cumuli della Call 3.jpgStoria. I tamburi sono i battiti del cuore, i flauti i respiri del Tempo andato, con i piedi forma cerchi o alza volute di fumo in un rito incantato e stregato (ricorda i dervisci) alla ricerca della lingua degli avi creando un'iconografia in movimento, misurandosi in ideogrammi fisici. Ha un grande controllo del corpo, da arti marziali, in questa sua personale “Alphabet Street” (Prince) e muovendosi e contorcendosi e fluttuando sembra di vederli chiari e nitidi i suoni gutturali tagliando la coltre di nebbia e con i piedi e con le mani riporta in superficie da sotto terra, riesuma e rievoca gli antenati, la loro storia da non dimenticare. La sua è una chiamata, una missione, un fuoco quell'impastare l'arcano mistero di popoli estinti. Se è vero che la Storia la scrivono i più forti, è pur vero che abbiamo, oggi più che mai, un bisogno necessario, fisico, imprescindibile, di (ri)conoscere il nostro passato, le radici.

Dal solo al duo con le sorelle Zhukova, Maria e Elizaveta (in nero adamitico come due Eva Kant), che in “Takeover” intrecciano un dialogo diTake over.JPG vicinanza e potere, di incontro e scontro, di attrazione e repulsione contendendosi una piccola palla stroboscopica ricordandoci due titani che si contendono il predominio sul mondo, giocando con la Terra. Due dee (Yin versus Yang) che, illuminate da una torcia che riverbera i quadratini riflessi come pulviscolo celeste come fosse il puntinismo di Georges Seurat, distendono il loro corpo a corpo, due forze in campo uguali e contrarie che si sovrastano, lottano, duellano, un inseguimento a contendersi il nostro Pianeta: Dio gioca a dadi con l'universo e a farne le spese sono gli uomini.

Di grande impatto, colorato e simbolico, l'opera di Olga PonaCardboard” che unisce il fumetto, connessa alla creazione, alla danza. Tre disegnatori, curvi sui loro tecnigrafi fanno schizzi, prove, tentano di far uscire dalle loro penne nuove idee, nuovi personaggi, nuova linfa. Ma quasi come nel pirandelliano “Sei personaggi in cerca d'autore” è la montagna di carta straccia che sta a fianco a loro, un cumulo di rifiuti che Card 2.JPGci ha ricordato la “Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto, l'humus che fermenta e fertilizza tutte le idee non andate a buon fine, tutti i disegni abortiti, gli sbagli, i fallimenti, i tentativi caduti nel vuoto. Anche le lampade da tavolo prendono vita come nella “Fantasia” disneyana. I disegnatori sono vestiti in blu, rosso e prugna, hanno occhiali da Harry Potter perché la creazione, qualunque essa sia, ha sempre in sé qualcosa di magico, di miracoloso. Ma è dalla montagna di scarti accartocciati che esce un “mostro” bianco perché non finito, michelangiolescamente parlando, lasciato incompiuto senza colori. Questo essere prende forma, si agita, si anima, si solleva, cerca una paternità, invoca qualcuno che finisca la sua anima, che gli dia rilievo e sostanza e non lo lasci pagina bianca ancora tutta da scrivere, che non lo lasci bozzolo ma lo faccia sbocciare in farfalla. C'è di sottofondo una richiesta di redenzione verso tutte le creazioni che non hanno visto la luce, verso tutti quei figli abortiti: carico, profondo, lirico. Lettura consigliata: “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci.

Il messaggio è politico e molto forte, propositivo e non arrogante: “Birth of the Phoenix” della compagnia israeliana Vertigo, sotto una cupola aBird.jpg semicerchio che ricorda un osservatorio astronomico che permette di danzare e mostrarsi su 360 gradi, fa esplicitamente rimando e riferimento allo Stato di Israele e al suo popolo, compresso, schiacciato, esiliato, combattuto per secoli da svariate culture e nazioni ma ancora vivo, sovrano, con la testa alta, che rinasce ogni volta più forte dalle sue stesse ceneri e quindi inannientabile, indistruttibile. Dalla sabbia, dove danzano i cinque performer in rosso sangue, rinascono, riemergono, rispuntano dopo infinite cadute e si librano ancora fino al canto finale liberatorio (per pathos ci ha ricordato la colonna sonora di Nicola Piovani della pellicola Oscar “La vita è bella”) malinconicamente felice, velata di una patina di tristezza ma gaudente, ferita ma soddisfatta, piena di vitalità e nostalgia ma sprizzante di quella gioia incontenibile di chi ha lottato per esistere e resistere e che adesso, senza mai abbassare la guardia, sorride al mondo, fiero, sereno, in pace con se stesso e con la Storia.

Tommaso Chimenti 28/08/2018