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Al Teatro Vittoria, anche senza Omero, un’Odissea nello spasso

Dev’essere stato un po’ lo stesso pensiero che ha spinto il primo chef vegano a chiamare “carbonara” un piatto senza guanciale, senza uovo e senza pecorino, quello che hanno concepito Vincenzo Manna e Daniele Muratore nel mettere in scena la loro “Odissea” (produzione Khora.teatro, dal 14 al 19 marzo al Teatro Vittoria). Sì, perché d’Odissea, qui, c’è solo il nome. O meglio: i nomi.
C’è Ulisse, anzi: Odisseo, come filologia greca consiglia (con tanto di tonico sulla ì), c’è Penelope, c’è Telemaco, ci sono i Proci, e Circe e Polifemo e tutta la compagnia di mostri e creature, di eroi e di comprimari che Omero (o chi per lui...) ha immortalato. E insieme a loro, ci sono gli intrecci, tra flashback e tempo ‘presente’, che li riguardano. A mancare, infatti, non è il contenuto – e, va da sé, trattandosi di teatro, la forma cambia giocoforza – ma la sostanza. La sostanza omerica. Quella che deve esserci comunque, qualunque stravolgimento si faccia al testo di partenza.Odissea1
Manca, ad esempio, l’infantile eroismo di Telemaco, ridotto a pavido figlioccio di Penelope; manca il tormento e la curiosità, la tragedia e l’epopea, la scaltrezza e l’infida intelligenza di Odisseo, privo anche del minimo spessore, della minima forma (lui che ne aveva non una, ma “molte”); manca la (finta) ingenuità di Nausicaa, qui specie di cheerleader alle prese forse con le prime pulsioni adolescenziali; manca la feroce e subdola passione di Circe, che invece s’improvvisa spavalda gestrice di bordelli; manca, ancora, la grande ironia e il sarcasmo e il senso di grottesco che sostanzia in filigrana quasi tutti i versi d’Omero. Ma soprattutto manca quell’atmosfera d’universale sospensione dell’uomo di fronte al possibile e all’ignoto che ha reso possibile la resistenza del poema omerico fino ai giorni nostri.
Ma tutto questo mancare, in realtà, infastidisce solo nella misura in cui ci si ostina a far affidamento su quel titolo là, “Odissea”, che è probabilmente l’unica pecca dei due registi: come lo chef di sopra avrebbe dovuto inventarsi un nome per la sua pseudocarbonara, così qui sarebbe stato preferibile ripensare un po’ sia l’anagrafe che il battesimo. Tutto lo spettacolo, infatti, è un saliscendi, un vero e proprio spasso di immagini e suoni, un caleidoscopio di trovate sceniche, che non può che accattivare e affascinare. A partire dalla scenografia, costituita essenzialmente da un’impalcatura percorribile (la cui struttura ricorda molto da vicino quella impiegata da Andrea Baracco, qui supervisore artistico, nel recente “Romeo e Giulietta”) e una panca che è anche bara e barca, passando per le musiche (Giacomo Vezzani) e le luci (Andrea Burgaretta), ogni elemento scenico è semplicemente spettacolare – nel senso alto e buono del termine. Ecco che allora ci si dimentica del tradimento e delle incongruenze, presi come siamo dall’occhio, simil-robotico, a luce verde di Polifemo (interpretato, come Circe e altre figure minori, dalla camaleontica, brillantissima Elisa Dieusanio) di fronte a Odisseo (incontro che strizza forse l’occhio a “Io, Nessuno e Polifemo” di Emma Dante); dalle musiche ‘discotecare’ e dalle vesti improbabili sfoggiate nell’isola di Circe; dalle irresistibili passerelle a suon di stacchetti dei vari Proci, qui conciati come uomini in affari o tarantiniane iene.
Certo, le esperienze di Latella con “Natale in casa Cupiello” e del già citato Baracco con “Romeo e Giulietta” (solo per dirne alcuni) hanno dimostrato che quando si ha tra le mani un classico fondamentale ci si può sbizzarrire in forme e contenuti senza intorbidirne la sostanza, si può cioè sperimentare senza tradire lo spirito dell’opera. Ma in questa spassosa “Odissea”, in definitiva, c’è troppo sano spettacolo, ci si diverte davvero troppo, per non dirsi soddisfatti.

Sacha Piersanti 17/03/2017

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