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“Nato cinghiale”: guerra e pace tra un padre e un figlio

SPOLETO - “Com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano” (Franco Battiato, “Bandiera bianca”).
Cibo e teatro, incontro millenario, convivio che macera da sempre sotto la cenere. Panem et circenses dicevano al Colosseo. Una vicinanza mai scordata (anche se i pop corn del cinema o le caramelle scartate in un teatro all'italiana disturbano) che la rassegna Eat (Enogastronomia a Teatro organizzato da Andrea Castellani e Anna Setteposte) ha riportato in vita con una serie di performance legate al cibo e all'alta scuola culinaria. In quest'ottica (cenare a teatro è sempre un lusso) non potevano mancare le Ariette, il duo emiliano che da anni propongono una narrazione basata sulla loro vita di campagna e dove si mangiano soltanto prodotti della loro terra e personalmente seminati, coltivati e raccolti. E in questo cartellone si è inserito benissimo anche Alessandro Sesti, direttore insieme a Marco Andreoli del festival di teatro contemporaneo “Strabismi” (all'interno del quale assegnano anche il prestigioso “Premio SceMario”), con il suo “Nato cinghiale”. In questi anni Sesti, che è anche direttore del Museo di Cannara, ha realizzato varie pièce, da “Ionica”, storia di un testimone di giustizia, a “L'origine dell'eroe”, da “Luca 4,24” incrocio tra parola e danza, a “House we left” sul tema dei transessuali in carcere, fino a “Eclissi” lavoro sull'alzheimer. “Il padre contemporaneo, che non è più colui che sa cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma è colui che accompagna il figlio anche nell’esperienza del fallimento”, proclama Massimo Recalcati.08b282bed88832c9197a25b1ea22b623_XL.jpg
Mentre la pentola sobbolle, e le spezie si spandono tra i palchetti e gli stucchi del teatro Caio Melisso, inizia a fluire il suo autobiografico excursus familiare, i contrasti con il padre, i dissidi della crescita verso il genitore, i piccoli faticosi gradini utili per diventare grandi. Ci si immerge in questo fiume di parole, in questa parabola catartica di avvicinamento e allontanamento, di attrazione e repulsione, un racconto acre e intimo e caldo che ci riporta all'infanzia malinconica e a quel confine labile tra l'essere figlio e il diventare adulto, cercando disperatamente chi siamo e un nostro piccolo posto nel mondo abbattendo i simboli e i feticci iconici familiari. Impossibile rimanerne impassibili perché l'andamento è altamente commovente e universale, è un riconoscersi in certe dinamiche che hanno segnato i passaggi delle età, le frontiere tra ciò che nostalgicamente eravamo rispetto a quello che gravosamente, con le mille piccole battaglie quotidiane che abbiamo affrontato, siamo riusciti a diventare. Il cinghiale è il tramite tra un padre cacciatore, orgoglioso di quel folclore e di quel rito condiviso, di quella passione che è vicinanza e amicizia ma anche segno distintivo di una cultura, di una regione, di un certo modo di stare al mondo (lontano dalla violenza barbara), e un figlio che cresce in un mondo contemporaneo che certe cose se le è sempre trovate in tavola ma che 154440082-daa92a31-11f7-424a-bc2f-3023872e6235.jpgipocritamente aborra metodi sanguinari e dall'altra rifiuta a prescindere le tradizioni casalinghe, che ritiene provinciali, perché proiettato verso la tecnologia, verso mete lontane. Bisogna sempre ricordarsi da dove veniamo e avere ben chiaro il percorso, la trama, le strade tortuose della nostra esistenza senza reprimere, senza affossare, senza disconoscere pezzi del nostro dna profondo. In sottofondo, dentro, ci risuona “Father and son” di Cat Stevens. “Ho solo due cose da lasciarti in eredità, figlio mio, e si tratta di radici e ali” elargiva William Hodding Carter.
“Non è uno spettacolo, è una confessione”, attacca Sesti nel suo incedere tra il compassato e l'appassionato, la voce profonda accompagnato dalla musica di Debora Contini (ukulele e clarinetto). E' un affresco sull'Umbria, la loro regione d'origine, ma se vogliamo sull'Italia, su quel piccolo mondo antico che i giovani disprezzano per poi riaccoglierlo in età più matura. E' il circolo della vita il considerare vecchio e sorpassato tutto quello che ti circonda per demonizzarlo e cassarlo per poi scoprire, con il tempo, che non tutto era da buttare. Il cinghiale (dalla pandemia in avanti le immagini dei cinghiali che scorrazzano in città o dormono sugli zerbini sono quotidiane e ormai diventate un classico) è la terra, è il bosco, è la natura, è quasi un Dio che si fa carne per gli uomini, un Dio che sfugge al controllo e si nasconde tra rovi e arbusti, un Dio pericoloso e potente, compatto con il pelo irto che grugnisce e carica, che non ha paura di morire per difendere la propria vita e quella del suo clan. Andare a caccia del cinghiale è una sorta di corrida, un uomo solo, con soltanto un fucile, in un habitat che non gli appartiene, cercando di abbattere la bestia che sta dentro di lui come in uno specchio. I rimbombi esplodono in teatro e il respiro dell'animale braccato sembra di sentirlo ad un passo da noi, ansimante e impaurito. Successivamente cucinare e preparare quella carne che si è personalmente cacciata chiude il cerchio della vita, con il giusto rispetto che si deve per ogni essere vivente.
Ma questo è un confronto, anche aspro, tra padre e figlio, un padre con il fucile in mano (senza essere guerrafondaio) e un figlio che per distinguersi (“Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati” diceva Brecht), per creare un solco caustico e nato-cinghiale_2022_08_22T12_08_18_440848_detail_box.jpguna barriera invalicabile con il proprio genitore sceglie di diventare vegetariano. In questo caso non è solo una scelta di vita consapevole ma un gesto forte contro qualcun altro, un atteggiamento in antitesi, non propositivo ma un'ascia di guerra dissepolta, un chiaro messaggio luminoso per dire a gran voce e ribadire con puntiglio: “Io non sono come te!”. Si scontrano due mondi, uno ruspante e terreno, l'altro fatto di discoteche e surgelati, un mondo di fango e bossoli e un altro di musica alta e luci sparate. Sesti, grande affabulatore che tiene le redini della platea mentre le assi del teatro scrocchiano e i calici tintinnano, ci porta dentro la sua famiglia, aprendosi senza pudori di forma o maniera, senza i filtri del romanzato mettendo uno davanti all'altro due popoli della notte che si muovono “con il favore delle tenebre”, da una parte i cacciatori, dall'altra chi rientra dalla discoteca o dai locali della movida con il gomito alzato. “I cattivi padri sono quelli che hanno dimenticato gli errori della loro giovinezza” (Denis Diderot).
Il pubblico è la preda di Sesti, il pubblico poi diventa la squadra di caccia del padre (Patrizio) dello stesso autore quando ci si immerge nella fitta boscaglia dantesca per stanare la belva furiosa. La guerra dei mondi. Due universi che non possono coesistere: infatti tra il padre e il figlio dalle litigate si passa presto all'indifferenza fino a diventare due perfetti sconosciuti. Poi si cresce e al posto delle battaglie abbiamo bisogno di condivisione e vicinanza, di sentirci parte di un tutto e allora Alessandro si scopre non così diverso da Patrizio e tutte le dissonanze sottolineate in precedenza forse erano state acuite e aumentate ed esagerate dall'impazienza e dall'insoddisfazione di non sapere ancora chi si è; il padre che è “generoso e schivo e burbero” proprio come dice la didascalia del segno zodiacale cinese del cinghiale, il padre che è un “padellatore” ovvero uno che sbaglia il bersaglio e manca (volontariamente?) le prede. E allora il figlio riequilibra la propria rabbia, scende a patti con il ciclo della vita, perdona e chiede perdono, cerca un abbraccio, cercano di capirsi questi due mondi che sembrano così lontani (“So far, so close”), l'attore che adesso cucina il cinghiale, ma che non caccerà mai, e l'operaio cacciatore. “Nato cinghiale” è un guardarsi dentro, è un affacciarsi sull'abisso, è un avere paura delle radici per infine apprezzarle e respirarle, capire chi siamo, capire che veniamo dalla terra rispettando quegli esseri viventi che diventano cibo per la nostra tavola. “Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre”, sussurrava Gabriel García Márquez.

Tommaso Chimenti 27/11/2022

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