NAPOLI – Non dare mai per scontata Napoli. Non credere di averla capita, non pensare di averla compresa fino in fondo. Se lo fai è la volta che ti sorprende, che ti sfugge, che ti frega, che ti fotte. Napoli è il mulino donchisciottesco arrugginito come la sua intrinseca utopia che lo muove. Infatti le sue pale sono ferme, immobili, incrostate. Napoli ti spiazza, ti spezza, ribalta le tue certezze, non annoia mai, ti scombussola, ti scuote. Intanto nello stesso giorno si può spaziare dal trovarsi davanti al Teatro Bellini Mario Martone che gira alcune scene della sua nuova pellicola, Erri De Luca che presenta un libro in Galleria, Giuseppe Conte che fa un comizio, e poi la mostra sui “Gladiatori” al Museo Archeologico che si mischia con quella blasfema al Museo Pan, mentre il Napoli è primo in classifica in Serie A. Un frullatore estatico.
Già il concetto labile ed effimero di noia, quel lieve misto tra insofferenza e leggera irritazione è la sensazione predominante all'uscita del lavoro del Maestro Christoph Marthaler (a proposito il 17 ottobre compirà 70 anni, 40 di attività), “Aucune idee”, dove, se proprio vogliamo parlare di idee, se c'erano (nessuna, come ci dice il titolo), erano offuscate, annebbiate e nascoste, quantomeno criptiche, e quando si palesavano diventavano subito ridondanti e stucchevoli. In una sorta di condominio-ufficio va in scena un teatro dell'assurdo e del non-sense lontano però dall'ironia che sempre contraddistingue le piece del regista svizzero. Manca la profondità, l'emozione, la linfa, il sangue, il brivido, senza gioia, e tutto ci lascia indifferenti, scorre senza toccarci. Sei porte che si aprono e si chiudono in maniera circense. Un uomo entra da una apertura e esce da un'altra come se fossero comunicanti anche se, nella narrazione, sono appartamenti separati. Un uomo, al quale cadono perennemente le chiavi dalle mani (per vecchiaia? per malattia?), mentre l'altro suona il violoncello (Martin Zeller). Ma c'è un terzo elemento così fondante e centrale che diventa a pieno titolo un terzo personaggio, anzi proprio perché invisibile, o almeno incorporeo e impersonale, funge da fulcro attorno al quale ruotano i due ruoli come lancette di un orologio alla ricerca del tempo perduto. E' la cassetta della posta dalla quale spuntano, anzi vengono proprio sputate con violenza quasi fosse un vomito, bibbie a getto continuo, a cascata, a valanga o pubblicità e depliant e volantini di prodotti commerciali della grande distribuzione a chili. La recitazione è fatta di vocalismi e virtuosismi fini a se stessi, tecnicismi freddi che non scaldano, non abbracciano, non aiutano la comprensione. Sta di fatto che si scoprirà soltanto alla fine che i due sono gemelli e che il rapporto con il Padre non è stato dei più facili. Ma è il mantra di tutto lo spettacolo che spinge la platea a chiedersi il perché di certe dinamiche, di alcuni movimenti e scelte quando, forse, una spiegazione logica non ce l'hanno. E ci troviamo nella scomoda posizione di cercare di mettere insieme i pezzi del puzzle e tentare di dare un ordine faticoso alle cose, alle scene viste. Il teatro dovrebbe porre interrogativi e dubbi non andare con il lanternino alla caccia disperata di dettagli e particolari per capire “chi è l'assassino” che, francamente, non interessa a nessuno.
Dicevamo due gemelli chiusi claustrofobicamente dentro questo palazzo, che potrebbe essere un labirinto dal quale, le porte che danno la sensazione e l'illusione di aprirsi su nuovi mondi invece riportano sempre come in un Gioco dell'Oca guasto allo stesso punto iniziale, non si può uscire. E se questo è un labirinto, il Padre-cassetta delle lettere potrebbe essere il Minotauro-deus ex machina che ordina senza palesarsi mai, che impartisce dettami senza concretizzarsi davanti loro fino a metterne in dubbio la sua vera esistenza. Il tutto è concettuale e rarefatto puntando più su un'estetica dalle linee nette e pulite che su una reale comprensione. L'attore (l'estroso, eccentrico e istrionico Graham F. Valentine), dai grandi mezzi espressivi e tecnicamente inappuntabile ma dagli scioglilingua estenuanti al limite della parodia stressante e provocatoria, sciorina il suo esperanto con parti in inglese altre in francese o tedesco. Nei suoi dialoghi surreali prima è un ladro che vuole rubare in un appartamento intrattenendosi amabilmente con il proprietario di casa da defraudare, poi riceve una lettera (sputata dalla solita cassetta, unico contatto con il mondo esterno) da una figlia che non sa di avere, oppure tira il guinzaglio a un cane immaginario che non ne vuol sapere di uscire di casa. Pare che quel loro piccolo mondo, fondato su minute e microscopiche certezze, si autodetermini tra il desiderio di uscirne e la paura di varcare la soglia che li lega e li separa dall'esterno, da tutto quello che si muove al di là dei loro movimento stereotipati e quotidianamente identici a ieri.
Siamo sotto le feste natalizie e la solitudine si taglia a fette, l'isolamento, non sappiamo quanto volontario, è tangibile, palpabile: addirittura, come in una via crucis contemporanea, il nostro trascina una poltrona con sofferenza e fatica e peso, e non sappiamo se la seduta sia per la venuta dell'anziano Padre. Un teatro operistico gelido, una recitazione affettata lirica e glaciale che ha lasciato la platea non partecipativa, non coinvolta, non appagata.
Parlando di Padre e di claustrofobia spendiamo due parole anche sul “Paradiso” di Virgilio Sieni dove vediamo un Eden rigoglioso, debordante e che sembra “mangiarsi” l'uomo sulla Terra (tutti Adamo, nessuna Eva), green, bio, giunglesco, traboccante, esondante. Ma il tutto è tenue, incolore e timido, fumoso e pallido come la nebbia primordiale che nasce e cresce con un tappeto sonoro languido e ripetitivo, un groove senza grinta, piatto e monotono. Un teatro botanico e floreale. Anche il Paradiso è senza gioia e privo di felicità. “Where is the love?”, cantavano i Black Eyed Peas.
Tommaso Chimenti 26/09/2021
Foto: Renato Esposito