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La Santa Muerte di Napoli: Rifredi e Scena Verticale

NAPOLI – “Per consiglio, nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare” (Erri De Luca).

New York è la città che non dorme mai, ma anche Napoli non scherza. Qui puoi trovare, a qualsiasi ora del giorno e della notte, il fritto in tutte le sue sfumature, le granite, le sfogliatine, le canzoni di Pino Daniele che arieggiano, le facce stralunate di Totò su muri e bandoni, le frasi di Troisi, le maglie di Hamsik o Insigne, infiniti personaggi divenuti statuine del Presepe, Pinocchi rossi, Pulcinella in varie salse, Maradona in ogni formato, dalla bandiera al murales gigantesco. Più la vedi, più la conosci, più la visiti, più la vivi e più è sempre più lampante la leggenda di Napoli in bilico, in equilibrio perfetto su un uovo. Questo è: talmente solida è la sua Storia secolare, le sue mura spesse, tanto è fragile l'esistenza, incrinabile, incerta e insicura, talmente flebile che l'oggi è abbagliante,62490681_10210912800334401_8091878072548065280_n.jpg che il presente è pressante e urgente proprio perché non esiste nient'altro. E' il momento quello che conta, ogni giorno è un ammasso di ore da prendere e assalire e mordere, spremere, con tutti i sentimenti esplosi, il riso e il pianto, il canto e la preghiera tutto deve essere esposto e forte, alla luce del sole, anche se vivi in un basso. Se il Passato serve soltanto per alimentare la nostalgia, se il Presente è così acceso da essere dittatoriale, il Futuro non diventa programmazione ma speranza in un qualcosa di ultraterreno, di manna che cali e sistemi le cose, sconfinata fiducia in un trascendente, in un mondo lontano da beghe, dolori e preoccupazioni terrene. Ecco, la principale contraddizione di Napoli è l'essere così concreta e materica 62491424_10210916382823961_5212936797977313280_n.jpge dall'altro lato, ma inscindibile nella sua pasta miscelata, così astratta e votata a quello che non c'è, la poesia dell'emergenza, la bellezza della miseria, la polvere di stelle senti, la respiri ma non riesci a spiegarla; è lì ma non la puoi afferrare. Napoli sfugge alle definizioni, Napoli ti sfugge proprio quando hai pensato di poterla descrivere, raccontare, farla tua. Napoli puoi restituirla soltanto solo a piccoli bocconi perché è lei (è femmina, certamente) che prima ti fagocita, poi ti digerisce e infine ti sputa. Ha quell'arroganza affascinante, quella spocchia da strada, quella sfrontatezza alla quale tutto perdoni. Canagliesca ma mai carogna. L'odore di pizza si mischia a quello dei libri usati, la streetart dei Quartieri Spagnoli a quella classica, i gabbiani urlanti e gli aerei fumanti, i tanti soldati in tuta camouflage e mitra, i venditori ambulanti dalle voci gutturali, dai suoni contratti smozzicati che sembrano provenire da grotte millenarie. Nei negozi cibo e abiti, abiti e cibo. I panni stesi sono la scenografia naturale, il fondale, e ogni tanto spuntano agli angoli edicole votive private racchiuse dentro l'alluminio dorato che stona.

E questo forte legame tra la vita e la morte che tutto pervade leggero e tragico insieme entra fin nelle pieghe, nelle ossa del suo “Napoli Teatro Festival” dove, esistenza e Aldilà si fondono e si uniscono al coro, al grido, alla preghiera, all'urlo, all'abbraccio della città. Qui niente può essere contemplato a compartimenti stagni, qui tutto può avere un senso solo se visto come piccolo pezzo dentro una grande ruota che gira senza sosta. Napoli non la puoi giudicare, ti puoi solo far trascinare dalla sua fiera feroce delicatezza brutale e accogliente. E così c'è un filo di linfa che collega il Cristo velato con il suo sudario morente con il Cimitero delle Fontanelle dove migliaia di teschi giacciono su migliaia di ossa in catacombe inquietanti umide e fresche dall'odore acro di finitezza. Ecco che ci viene a sostegno l'installazione di Jan Fabre, teatrante e artista a tutto tondo, con il suo uomo marmoreo, sulla sua scaletta da tre pioli che tenta di scalare il cielo o avvicinarcisi il più possibile al divino (come la Torre di Babele), con in mano una livella, chiaro omaggio al Principe De Curtis e all'unica cosa che realmente ci rende tutti uguali, l'unico comunismo raggiungibile 64218766_10210920496086790_582810221500432384_n.jpgquando saremo tutti orizzontali. Le scritte in rilievo ai Quartieri Spagnoli rendono la consapevolezza, l'appartenenza, il senso di una città che non puoi etichettare con i soliti discorsi da bar: “Ogni crepa racconta una storia” sembra che zoomi e risalta come uno schiaffo sonoro, e ancora “Napoli non nasconde le ferite” e i muri sbertucciati senza intonaco lì attorno colorati di rosso come a far vanto delle imperfezioni, senza vergognarsi delle difficoltà. Mettici anche dentro il lutto per il tradimento di Sarri (fa molto più male di quello di Higuain) passato al nemico storico (e non parliamo di sport ma di filosofia di vita: il sentimento, la passione sviscerata contro la vittoria ad ogni costo). Napoli guarda e passa, Napoli già sembra sapere come tutto finirà. Napoli è oltre le briciole che i tempi moderni lasciano sul loro cammino per non perdersi.

La fine di un amore può essere fotografato a tutti gli effetti come una morte, una separazione, un distacco traumatico. E sono addirittura “Tre rotture” quelle che il drammaturgo francese Remi De Vos ha tracciato sul filo dell'assurdo, del grottesco colorato. Gran cerimoniere Angelo Savelli, dei Pupi e Fresedde del Teatro rotture01.jpgdi Rifredi di Firenze, che ha curato adattamento, riduzione, traduzione e regia (hanno già messo in scena un paio di stagioni fa “Alpenstock” dello stesso autore). Tre quadri, tre diverse simili sfaccettature dello stesso tarlo: le relazioni interpersonali sentimentali messe in scena da Monica Bauco e Riccardo Naldini, affidabili attori storici fiorentini dalle carriere solide anche qui concreti e credibili anche se avrebbero potuto “sporcarsi” più le mani ed andare più a fondo in questa materia bollente. I discorsi sono conviviali, le parole neutre, gli sguardi senza acredine, i battibecchi senza rabbia né rancore ma, è proprio questa la frizione, il tutto risulta ancor più violento e irreparabilmente truce, una calma apparente e quando ti accorgi che il colpo è arrivato ormai è troppo tardi e ti trovi sdraiato a terra, affondato, disteso, incapace di reagire. Un testo senza sangue, apparentemente, che gioca sui toni, sul non detto, su quell'impercettibile polvere che si crea in ogni coppia, su quel corposo computo di giorni, mesi ed anni che vanno a (s)formarsi, che vanno a compattarsi algidamente, a mummificarsi gelidamente. Se nel primo caso la moglie lascia il marito improvvisamente dopo avergli preparato un'amorevole e curata cena succulenta mastercheffiana (rimandi da “La grande abbuffata”), nel secondo il marito confessa alla moglie che si è innamorato di un uomo e nel terzo (il migliore riuscito) due genitori-Peter Pan sono tartassati, vessati e bullizzati dal loro piccolo figlio-dittatore e despota che odiano e che vorrebbero far fuori. Emerge la normalità del cinismo, la mancanza di solidarietà, di empatia, la verità sbattuta in faccia come una mazza da tre-rotture-attori1000X625.jpgbaseball, le nostre quotidiane crisi, i nostri crack interiori davanti agli ostacoli, alle difficoltà, che ci fa riflettere su quello che siamo, su quello che siamo voluti diventare, asettici, programmatori senza solidarietà, lucidi calcolatori, su quello che abbiamo scelto scientificamente di non essere più: uomini.

Morte come aspetto fondamentale della vita anche ne “Lo Psicopompo” (testo già vincitore del “Premio Sipario”; esiste anche l'omonima compagnia teatrale diretta da Manuela Cherubini) che significa “guida delle anime dei defunti”. E Dario De Luca, una dei tre pilastri di Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, che nel suo precedente spettacolo aveva impersonato un sacerdote affetto da alzheimer, “Il vangelo secondo Antonio”, psico-6-sito-06.jpgstavolta (suoi testo e regia di questo duetto ben congegnato) orchestra attorno ad un infermiere che porta clandestinamente una dolce morte a chi è gravemente malato, donando sostegno e solidarietà. Il plot ricorda la pellicola “Miele” di Valeria Golino con Jasmine Trinca e Carlo Cecchi. Sulla scena lo stesso De Luca e la straordinaria, da premio, Milvia Marigliano recentemente apprezzata come la madre di Stefano Cucchi nel prodotto Netflix “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi, memorabile la sua scena in “Loro 2” di Sorrentino con Berlusconi che la chiama a casa e le fa comprare un'abitazione della quale non aveva bisogno o, in teatro, nella trilogia americana di Arturo Cirillo. Se a questo ci aggiungi che l'ingegnere del suono è Hubert Westkemper che aveva ideato per il debutto-site specific di Cosenza un impianto di cuffie per gli spettatori (come nella sua “Elettra” di De Rosa) mentre gli attori se ne stavano dentro una teca costituita dal piano inferiore delle casette che il capoluogo calabrese ha stanziato lungo il fiume nelle quali vengono ospitati esponenti d'arte contemporanea (nelle stesso luogo altre repliche a inizio luglio), la piece prende quel respiro e quella rincorsa da piccolo cult. Proprio nei giorni nei quali una ragazza olandese di diciassette anni si è lasciata morire a casa perché non desiderava più vivere, con gli strascichi sempre presenti di Eluana o Dj Fabo o ancora Welby, dopo aver appreso che Corrado Augias (anche Odifreddi è sulla stessa lunghezza d'onda) si è comprato il kit della dolce morte, il tema dell'eutanasia non si è affatto sopito e aspetta un altro c110ba89-6687-41f1-bc44-74c118e96db1.jpgcaso per farlo ritornare di moda nell'agenda politica e sui media, perché in Italia viaggiamo sempre sull'urgenza e sull'emotività del momento. In un interno borghese, con il fondale che sembra uno schermo cinematografico semovente che nell'ultimo quadro si fa “vetro” e incastona gli attori in una distanza (starebbe perfettamente all'interno di un museo come installazione), dentro la loro bolla di vetro come pesci in apnea, una donna ha deciso di morire, non perché malata, ma perché spossata, non vuole più combattere, vuole solo andarsene. Contattando in maniera carbonara uno specialista che effettua questo tipo di servizi incontra il figlio, è lui “lo Psicopompo”, il Caronte. La Marigliano (con Maria Paiato una delle migliori attrici della sua generazione) è una Madonna sofferente, una dolente Madre Coraggio, ha la grinta di Frances McDormand in “Tre manifesti ad Ebbing”, ha dentro la forza contrita della Pietà Rondanini, ha quella carica solenne che può esplodere da un 64392817_10210920469606128_2730796977674518528_n.jpgmomento all'altro, quell'adrenalina composta e la miccia lì pronta ad infiammarsi in un attimo. La sua è una sofferenza compassata, dignitosa, mai lamentevole, integra seppur piegata e piagata dalle intemperie della vita. Madre e figlio davanti all'interrogativo etico se sia giusto porre fine alla propria esistenza. In un susseguirsi di stati d'animo che mutano e fluttuano, sottolineati da musiche enfatiche e da pose che rimandano ad opere classiche, il testo si innalza a forma universale estraniandosi dal tempo (in sospensione c'è un qualcosa di intimo e sotterraneo che ci portato nell'atmosfera di “Morte di un commesso viaggiatore”), ponendosi in uno spazio che a tutti appartiene, che ogni epoca abbraccia. Siamo sussulti, siamo silenzi, siamo attese: “E' difficile soffrire in modo simpatico”. Rimaniamo galleggianti tra “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci e “Gli amanti” di Magritte: toccante. Come Napoli.

“Dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli”. (Luciano De Crescenzo)

 Tommaso Chimenti 18/06/2019

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