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Cronologia di un poeta. Ascanio Celestini racconta il tempo di Pasolini

Anche nella seconda parte di "Museo Pasolini", scritto e diretto da Ascanio Celestini, ci chiediamo: cosa dovremmo custodire del poeta bolognese e perché? La visita guidata continua. Nella seconda parte dello spettacolo – visto sul canale RaiPlay –, Celestini si concentra soprattutto sulla ricostruzione del contesto storico e politico di quell’Italia che lo stesso intellettuale descrive nelle sue opere, portando alla luce il lato oscuro del boom economico e la tensione della stagione stragista degli anni ’70. L’obiettivo della messa in scena è quello di valorizzare a pieno la densità informativa della drammaturgia imbastita e interpretata. Ciò che emerge, per grado di importanza, nell’atto performativo, infatti, è il testo, piuttosto che l’apparato scenografico. In questo senso, ci si imbatte in una narrazione che, seguendo un rigoroso ordine cronologico nell’esposizione dei fatti, racconta con piglio ironico e malinconico l’indissolubile connubio Pasolini/società contemporanea.

Così Celestini agisce, per lo più seduto sulla sedia, al centro della scena, tenendo alta la soglia dell’attenzione, attraverso la sequela vorticosa di quegli eventi che, progressivamente, si accinge a raccontare. Con irresistibile piglio autoironico, l’attore si pone una serie di domande (retoriche) come per chiarire a sé stesso e agli interlocutori, l’origine dei mali che hanno afflitto il paese nostrano, dal ‘56 al ‘75.

Calandosi perfettamente nel ruolo di «sfruttati» e «sfruttatori», Celestini raffigura con frizzante e acuto spirito critico, il poeta e tutte le figure che hanno, in vario modo, caratterizzato la sua esperienza di intellettuale anticonformista. Quello che ai più appare come un instancabile promotore della genuinità e autenticità del popolino, estraneo a qualsiasi forma di corruzione morale e politica.

La sensazione è quella che Celestini abbia una predilezione, come Pasolini, per le classi subalterne, si intuisce dall’intonazione vocale morbida, addolcita, che assume durante i monologhi dedicati proprio a questa porzione di umanità. Ci strappa un inevitabile sorriso di approvazione quando presta la voce alla focosità dei «baraccati», dei «poveracci», dando spazio alla voracità del dialetto romanesco. Al contrario, adotta un tono profondamente caricaturale, al limite della satira pungente, quando riproduce l’eloquio di alcuni politici, tra cui Junio Valerio Borghese.

Drammaturgia e performance sembrano convivere in un’unica entità, quella di Celestini – uno nessuno e centomila voci. La sua vivace espressività conduce nel cuore pulsante della catena narrativa. La scrittura scorre come un fiume in piena, disegnando così un teatro fatto di parole che non smettono di evocare immagini, pensieri e riflessioni. Avvalendosi di un frenetico e loquace gesticolare, Celestini dà il meglio di sé nel momento in cui propone i suoi incontri immaginari con Pasolini, a Roma. Conversazioni dal sapore amichevole, in cui traspare, con chiarezza, il significato della poesia, per un uomo – Pier Paolo – che rifugge tutto ciò che è destinato a sgretolarsi, a perdere consistenza fisica e memoriale. Se, allora, la borghesia, assieme a quella imperante logica del consumismo capitalistico sono destinate a svanire, la poesia, al contrario, «resterà inconsumata».

Perché se la storia è successione cronologica di tempo, la poesia è fatta di volti, voci, esistenze. Entriamo così nella classe dei bambini baraccati che si contendono la democrazia a forma di plumcake; passeggiamo con Sandrone e Rita la prostituta il primo di maggio e vediamo la notte in cui fanno l’amore, anzi la migliore scopata della loro vita; immaginiamo le case popolari occupate da chi una casa non ce l’ha davvero, ma che va via all’arrivo delle guardie; ripensiamo a quelle stragi che più volte sono state ricordate anche solo dagli sguardi dei nostri genitori, al terrore che navigava in un mare ignoto, mentre i giovani si sentivano inermi, sconfortati, afflitti; avremmo voglia di conoscere Don Piccicola e farci fare la domanda giusta, per imparare davvero. Vorremmo che il capitalismo non ci consumasse e noi stessi vorremmo trovare una soluzione dal consumare.

Il suggerimento di Celestini sembra essere questo, per vivere così in un tempo scandito dalle lancette e dai versi poetici: disporre pochi oggetti, ma essenziali per ritornare sulle tracce di Pasolini, destinati alla visione di un pubblico eterogeneo, che possa recepire il significato profondo di una lectio magistralis di storia e vita. La prima poesia in friulano, il cimitero di Casarsa, l’innocenza perduta del comunismo, la borsa in similpelle. E poi e poi, l’ultimo oggetto. L’oggetto che non può che essere l’ultimo: il corpo di Pasolini.

La visita guidata è quasi arrivata alla fine. Il mondo degli sfruttati e degli sfruttatori è stato qui «spalancato per essere mostrato senza cancellature, rispettando la cronologia». È il 2 novembre 1975: Pasolini è morto. Riflettiamo sul perché e su chi ha ucciso il poeta. Processi e dibattiti sono stati fatti, ma di quella notte in realtà non sappiamo molto, solo le ferite inferte a Pasolini, con il cuore svuotato e la faccia rivolta verso il fango, scambiato per un sacco della “monnezza”. La guida Celestini ha finito il suo turno, adesso è il nostro.

Non possiamo smettere di pensare a Pasolini e alle sue opere, non possiamo che il mondo non cambi mai, per quelle liturgie che sembrano fisse e cementificate, che somigliano a quella pistola puntata alla tempia di cui non conosciamo la carica. Dovremmo aggiungere anche noi un pezzo di questo museo alle nostre pareti: quell’ombra vuota al muro che pare quadro, per reinventare la realtà.

Marika Iannetta e Alessandra Mammoliti  16/03/2022

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