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"Morte di un commesso": viaggio immobile di esistenze grigie

PADOVA – Tenerezza e frustrazione, impotenza e pietà sono i sentimenti che si alternano tra le righe, tra le scene, tra le battute e le parole, calde e ciniche, vicine e così gelide, di “Morte di un commesso viaggiatore”. Grandi registi e grandi interpreti hanno affrontato, fin dal 1949 (fu Premio Pulitzer per la drammaturgia), data del debutto, questo grande affresco americano portatore di valori e carico di riflessioni, antropologiche, sociali e politiche: da Elia Kazan, primo regista, a, in Italia, Luchino Visconti, così come grandi attori hanno condiviso corpo e voce con quella del protagonista, Willy Loman, da Paolo Stoppa a Tino Buazzelli, da Enrico Maria Salerno a Umberto Orsini, da Eros Pagni fino a questo miracoloso Alessandro Haber.51va5-Aw.jpeg

Da Arthur Miller, qui tradotto da Masolino D'Amico, per la regia hopperiana di Leo Muscato (prod. Teatro Stabile del Veneto, Goldenart, Teatro Stabile Bolzano), “Morte di un commesso” è una continua ferita aperta che non accenna a rimarginarsi, imputridita, calcificata, sedimentata ma ancora capace di aprire tagli e squarci nella carne corrosa dal sale sparso sopra come zucchero a velo su una torta della domenica. E' la famiglia l'alveolo, l'antro che ci forma, ci piega e ci piaga, che ci modella e plasma, che ci tiene su dritti ma che ci schiaccia, che ci eleva ma che può anche comprimerci tra i tanti scheletri nell'armadio, metterci nel buio, confinarci a ruoli e personaggi e non comprenderci come persone. Nella famiglia sta l'incipit e la conclusione, la potenzialità dell'individuo e il suo ripiegamento in carcassa, l'afflosciarsi su se stesso, l'implodere tra sensi di colpa e impossibilità ad essere quello che altri avrebbero voluto che fossimo. E' in questo solco, potente e lancinante, abrasivo e ferente, in questa bolla di sapone acida e porosa, che si sviluppa questo canto tragico esposto all'esplosione dei sentimenti più acuti ed accesi, passando dalla gioia sconfinata alla tristezza più iraconda, dall'esaltazione più effimera e acerba alla depressione più arcigna. E' un'altalena dai grandi sbalzi, montagne russe che destabilizzano e non lasciano appigli né punti di riferimento per potersi salvare dai graffi, dalle lacrime.

Un d0TnZwKw.jpeguomo e la sua famiglia, tutto quello che ha e tutto quello che ha fatto, che è riuscito a mettere al mondo. Il sogno americano che si sfalda e si sfascia sotto ai suoi occhi, il volere è potere che si sgretola, si macera, si tritura diventando polvere, parole e chiacchiere, slogan buoni per colpire ma che non hanno solidità. Il vecchio venditore (un Haber gigantesco che riesce a far passare, in un incredibile stato di grazia, quell'irraccontabile senso di spaesamento) che non riesce più a vendere, deluso, colpito, affranto, distrutto, disfatto, stanco con il mondo là fuori che è cambiato senza che se ne accorgesse, quel mondo che non lo riconosce più, quel mondo che gli ha tolto la dignità di un ruolo sociale. E come in uno specchio questa condizione verso gli altri intorno viene rispecchiata anche all'interno del suo nucleo, quel suo nido che ha sempre creduto potesse essere ovatta e paracadute ai drammi che accadevano fuori dalla porta di casa. Un uomo annullato, arreso e sconfitto, frustrato e insoddisfatto, che ha riposto le sue speranze di grandezza nei due figli, uno donnaiolo, l'altro “fallito” girovago irrequieto in una società getimage.jpgdove per avere successo ed essere felice come persona devi necessariamente fare soldi, primeggiare, comandare. Sono gli anni '50 americani, quelli di Happy Days, quelli della casetta con il giardino e la macchina parcheggiata fuori, quelli del boom dopo le Grandi Guerre Mondiali ma che, come contrappasso e come girandola, tornano come metafora a susseguirsi nei decenni di costruzione di un modello e di disgregamento nelle generazioni successive. Viene in mente anche, con i dovuti distinguo, anche “Pastorale americana” di Philip Roth: una generazione che vuole passare i suoi valori acquisiti con fatica ad una prole che protesta per avere una sua identità ed autonomia.

Si sente tangibile il peso rancido della sconfitta, esistenziale quanto lavorativa, di questa felicità scambiata per il conto in banca, della domanda se sia più nobile lavorare per vivere o vivere per lavorare. Il padre si racconta, per autoconvincersi, una storia fatta di successi e trionfi, soldi e soddisfazioni, un'autorappresentazione del reale che non trova fondamento nella realtà, purtroppo scalcinata e traballante. Un padre “bipolare” che passa dall'autocommiserazione all'autoesaltazione, che si dà forza attraverso le bugie che si è sempre detto. E' un uomo irrisolto, squallido, piccolo, misero e miserabile, una nullità, vuoto, arido, umiliato, triste, grigio come i suoi abiti, che non riesce a reagire, in cerca di perdono dopo una vita-Purgatorio fatta di impossibilità, di preoccupazioni, di agitazioni, di palpitazioni quotidiane, che confonde i piani miscelando verità e false illusioni, quello che è accaduto e quello che avrebbe voluto fosse accaduto.

In questo nucleo, padre, madre e due figli, c'è una guerriglia più lacerante e distruttiva, che è quella tra il capofamiglia e il primogenito (Alberto Onofrietti ha il phisique du role di Biff, ed esprime impotenza e rassegnazione, dannazione e consapevolezza, passione e compassione), quello che poteva rialzare le sorti della famiglia, farla balzare alle cronache, ambire all'agognato successo, al riconoscimento sociale, alla ricchezza, quello che avrebbe potuto, tramite lo sport nazionale, il football, far fare quello scatto e scarto in avanti raggiungendo quel sogno americano attraverso il merito e le qualità individuali. Ma i dettagli, spesso, dividono chi ce l'ha fatta e chi al limite può aggregarsi ad ingrassare le grandi fila degli scontenti, dei secondi, del quasi, del forse: in una certa realtà o sei leader o vieni hN-2LDGA.jpegschiacciato. Ed è come se il commesso viaggiatore, vivendo perennemente nel passato, nel ricordo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, rinfacciasse al figlio le possibilità gettate al vento, le occasioni stracciate e buttate via, scartate come carta di caramella.

Fondamentale per tratteggiare la figura dei tre uomini, testosteronici e decisionisti, è il ruolo della madre (Alvia Reale toccante che gioca sui toni dei silenzi, dei non detti, sulla sottrazione, sul respiro in levare, sul togliere) che, in definitiva, tiene insieme i pezzi della famiglia, fa da collante, seppur sfiduciata e senza speranza, riesce sempre a tenere botta, a non lasciarsi cadere ed andare alla depressione, mantenendo la calma pur nell'ansia, senza mai dare o aggiungere altre preoccupazioni a quel gruppo che ha coltivato, condiviso, cresciuto, tirato su e che adesso non è bastone della vecchiaia, non è supporto o aiuto: vite bruciate e arenati nel pensiero di quello che sarebbe stato, caduti nelle sabbie mobili senza aver reagito.

Se Haber-Willy è Ulisse, ormai vecchio e improduttivo, Reale-Linda è Penelope che vuole tenere, faticosamenteocG35N3g.jpeg nell'apparente facciata di felicità finta dei sorrisi falsi, insieme tutti i pezzi di questa famiglia che si racconta bugie per sopravvivere a se stessa, nel postporre e rimandare i problemi senza mai affrontarli. Ma potremmo trovare anche una parabola-metafora legata a Collodi con Willy che potrebbe essere un Pinocchio ingenuo, Linda la Fatina, i due figli, Biff e Happy il Gatto e la Volpe. “Morte di un commesso viaggiatore” è un gorgo, una spirale, ed è come se ci dicesse che i nodi vengono al pettine, che tutto scorre ma tutto torna, che si raccolgono i frutti se si è ben seminato, che non bisogna pensare, con rancore straziante autopunendosi, ai treni persi, che le grandi aspettative generano grandi delusioni e fallimenti, che le domande inevase ritornano con ancora più forza dirompente, che i quesiti non affrontati nel passato torneranno, se non presi di petto, a rabbuiare il presente ed il futuro quando ormai sarà impossibile cambiare il corso ed il destino delle cose, che l'ipocrisia (“Non ci siamo mai detti la verità in questa casa”, “Sono anni che ci raccontiamo bugie”) distrugge e demolisce, che le colpe dei padri ricadono sui figli come quelle dei figli cadono sui genitori. Non c'è commiserazione.

Tommaso Chimenti