FIRENZE – Vedi uno spettacolo dei Carrozzeria Orfeo e ti senti un piccolo ingranaggio polveroso, un insignificante bullone arrugginito, una vite schiacciata tra l'incudine della società e il martello delle nostre ambizioni depresse. Se ne esce affranti, svuotati perché le risate sono amarissime, perché si ride (molto) di noi, di quello che non vorremmo essere, della deriva che ha preso il nostro tempo. E forse l'arte, il teatro nel caso specifico, è rimasta un'oasi, un'isola felice dove poter dire, affermare con forza, sostenere non soltanto alcune tesi ma anche con un certo linguaggio che fuori, nella vita di tutti i giorni, per strada o sui vari social verrebbe tacciato di qualsiasi abominio, razzismo, misoginia, omofobia, bodyshaming e altre amenità del nostro tempo confuso che non cerca di salvare le vittime ma solo giustizialismo di bassa qualità e un tot al chilo. Gabriele Di Luca sa scrivere e questo “Miracoli Metropolitani” (intriganti le scene di Lucio Diana) è il suo testo più maturo perché (al di là di qualche vezzo di forma di autocompiacimento autoriale), a differenza di altre sue drammaturgie nel recente passato, non infarcisce i suoi ruoli di mille caratteristiche, non li rimpinza di sfaccettature ad ogni costo, cosa che risultava faticosa all'ascolto e ne minava la credibilità. Un testo ad orologeria dove tutti i dettagli e i particolari disseminati tornano magicamente al loro posto e tutto trova la sua connessione e apertura. Rimangono alcuni tratti di moralità e di giudizio sul mondo, sporcato felicemente di politicamente scorretto, e di divisione tra chi sono i buoni e chi i cattivi, un testo, come tutti gli altri di Carrozzeria, altamente politico con il doppio binario di vite misere da una parte e il macrosistema dall'altro a rincorrersi, a sostenersi, ad incastrarsi, ad affrontarsi, e un'idea di giustizia che emerge potente e talvolta semplicistica ma efficace che fa presa su un pubblico già direzionato all'ascolto di alcune tesi giustificatorie.
I Carrozzeria sono contemporanei e classici, il loro schema sul palco riflette un'ambientazione moderna all'interno di una griglia “familiare”; potremmo definirlo un “teatro borghese” 2.0. Di Luca è il nostro odierno Eduardo, raccontandoci piccole esistenze e, a sprazzi, il mondo che gli gira intorno, frammenti di un'umanità dolente e perdente e sconfitta come cartina di tornasole di un più ampio meccanismo che tutti tritura e mastica e digerisce e al quale sembra che nessuno possa sottrarsi. E dentro questa cucina-garage (la prima volta che i Carrozzeria si trovano dentro una carrozzeria nei loro play: una carrozzeria al quadrato), dove si preparano scarti e jungle food, schifezze a buon mercato ma dai nomi altisonanti vegani o fintamente salutisti, sembra proprio di sentirne gli odori acri, di addentare i gusti malsani, di annaspare sughi e oli che ti rimangono incollati addosso, sulla lingua, sugli abiti, nella testa. E tutto diventa untuoso e grasso come le vite di questi esemplari umani che si barcamenano tra sogni ingialliti e un presente che non solo non li soddisfa ma che li rende ogni giorno più poveri, più tristi, più soli. Carrozzeria ti scarnifica, ti porta sul limite dell'essenziale e ti chiede di cosa abbiamo bisogno, che cosa stiamo cercando, dove stiamo andando e perché stiamo facendo quello che stiamo facendo se questo non ci sta dando altro che preoccupazioni e grattacapo, se il nostro tramestio quotidiano non ci sta facendo sentire meglio e invece, addirittura, ci affossa perché stiamo continuando su questa strada sterrata e brulla e arida verso un non ritorno e verso un tunnel senza via d'uscita? Siamo stupidi o soltanto pigri? O entrambe le opzioni insieme?
Il ritmo e la velocità da teatro british, così come la cattiveria e le stilettate, sono il marchio di fabbrica di CO e l'abilità è quella di creare ogni volta un team di attori, al fianco dei sempre presenti e colonne portanti Beatrice Schiros e Massimiliano Setti, che rispecchiano e fanno risuonare queste caratteristiche di tono, lunghezza d'onda, frequenze, timing perfetto a creare amalgama e impasto senza pause, colpi su colpi, schivate e nuovamente assalti dialettici, senza pit stop, in apnea, travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto. Ad un grande problema globale, l'inquinamento, e nel contingente, l'intasamento delle fogne con l'esondazione di merda (non si può chiamarla in altro modo; ci ha ricordato sia “Pali” che “Giù”, entrambi di Scimone e Sframeli) che stanno per affiorare e trasalire in superficie, fa da contraltare questa combriccola sgangherata di ultimi che tentano di sbarcare il lunario ognuno con i propri mezzi e insicurezze e traumi, ognuno pensando di essere più furbi del mondo là fuori, un universo che viene evocato ma mai, o solo per poco tempo al giorno, frequentato e vissuto e che così assume contorni mitologici e fattezze impossibili, un qualcosa di lontano che si allontana sempre più, di gigantesco e inavvicinabile e inaffrontabile. Fuori c'è l'Islam e i poteri forti, Instagram e i ricchi che li disprezzano, i vegani e gli immigrati. Il fuori fa paura, ma dentro quel microcosmo, seppur sempre con il coltello tra i denti in un tutti contro tutti senza esclusione di pugnalate, almeno tutto è standardizzato, una comfort zone anche se acida e amara, violenta e senza solidarietà ma pur sempre con i connotati e la fisionomia di una famiglia, incattivita ma pur sempre una famiglia.
Il cuoco Plinio (voce roca, timbro e cazzimma da Pojana e corporatura da Fred Flintstone) ex chef stellato ridotto sul lastrico che cucina, malvolentieri, scarti fatti passare per cibi liofilizzati dietetici, pasti per celiaci, alghe e seitan per i nuovi consumatori (che odia) dediti al delivery come nuova religione e sport nazionale. L'aiuto cuoca è nordafricana e si chiama Hope (speranza), il rider Mosquito è un ex carcerato che vorrebbe fare l'attore, la madre ex lavapiatti che vorrebbe fare il salto in società ed essere accolta dalle influencer al Rotary, il figlio Igor passa le sue giornate da hater e giocando a videogame sparatutto; a questi si aggiungono l'aspirante suicida Cesare (una sorta di Ned Flanders) e la madre di Plinio, Patty (Smith) sessantottina, bombarola, contro il Sistema, che nel tempo libero costruisce molotov come svago. Un crogiuolo di fallimenti, un impasto di vite dimezzate e marcite, triturate da un sistema che li vede numeri che devono produrre e non individui, pedine e non persone, in un'azzerante e raggelante mancanza di vicinanza, di affetto, di amore. Risate e dramma, denti stretti e lacrime per questo Calapranzi di disadattati sofferenti, distrutti, disgregati. Due ore e venti che volano tra rimorsi e voglia di cambiamento. Un successo meritato.
Tommaso Chimenti 12/02/2022
Foto: Laila Pozzo