Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Milano Off: il Fringe che mancava

MILANO – Ultimamente, negli ultimi anni, c'è stata un'ondata di Fringe italiani inseguendo quello leggendario di Edimburgo. Torino, Roma, Milano. Per fortuna però, soprattutto per gli artisti, la situazione italiana è più comprensiva e solidale con chi fa e produce arte. Ad Edimburgo si paga la venue, il tecnico, i possibili ritardi di montaggio e smontaggio, è complicato, e soprattutto autonomo e indipendente, il chiamare sia il pubblico che paghi un biglietto (il marketing e la promozione della piece è tutto a carico delle compagnie che spesso ingaggiano giovani aiutanti e di bella presenza per spargere volantini spesso in pattini per raggiungere più agevolmente più zone della città scozzese) che la critica che poi recensirà lo spettacolo. Se Edimburgo è una giungla, da sconsigliare, a meno che non si abbia un prodotto valido sul quale puntare, conoscere bene le regole d'ingaggio e perfettamente l'inglese, non si fanno sconti sull'accento latino, (vedi ad esempio l'ottimo Ceresoli con “La Merda”), una bolgia dove i più vengono tritati e triturati sull'altare del marketing camuffato da arte, i nostri sono più vivibili ed a misura d'uomo, più vicini, terreni.tea ceremony 2.jpg

Quello di Milano (terza edizione, dal 17 al 22 settembre, nella stessa settimana a Milano c'erano la Fashion Week, il Derby meneghino del pallone, Tramedautore al Piccolo, il concertone finale di Jova Beach Party), per la direzione di Renato Lombardo e Francesca Vitale, ha scelto di dislocarsi in varie parti della città; la Fabbrica del Vapore, con due stage, il Teatro Libero, il Teatro della Cooperativa e IsolaCasaTeatro; forse un maggior accentramento alla Fabbrica del Vapore avrebbe permesso una più forte identificazione di uno spazio con la rassegna. La FdV è un luogo magico di vetrate e mattoni, con il suo stile unico post industriale che ben si coordina con il teatro contemporaneo e la nuova drammaturgia. Sulle centinaia di proposte arrivate ne sono state scelte, in gara (c'è una giuria tecnica e una popolare con votazioni e schede), venti pièce mentre altri sei spettacoli erano ospiti (tra i quali Moni Ovadia, Raul Cremona, Jango Edwards, Fabrizio Martorelli, Mario Incudine). Tra i premi, una partecipazione ad Avignone Off, una replica al Clan Off di Messina, una a Catania all'interno di Palco Off, una a Milano al Libero, una al Torino Fringe e una masterclass a Barcellona di Nouveau Clown. Un gran bel pacchetto.

Le nostre preferenze (come giurato) sono andate certamente nella direzione del “Tea Ceremony” con in scena lo strepitoso e misurato artista cipriota Ioannou che si trasforma, perfetto nelle movenze, nel ritmo cadenzato e nelle pause silenziose, nella dama di compagnia per eccellenza del Sol Levante, la geisha. Già nel titolo è compreso quello che vedremo e quello che andrà a fare la signora (bellissimo il kimono, trucco perfetto, non una parodia ma un vero e proprio trasformismo) ma è un'illusione che ci distrae, mentre la donna giapponese, con i suoi modi delicati e gentili, lentamente ci porta in altri terreni, su altri piani e dimensioni. La performance, tutta in inglese, è un inno all'enjoy the silence, alla lentezza, al calibrare le nostre azioni, al pensare prima di agire, al pensare alle conseguenze del nostro stare al mondo. E c'è una formula che si ripete come mantra quasi ad ogni inizio capitolo che rilancia e ritorna: se in italiano la parola “ospite” identifica sia chi ospita che chi è ospitato, in inglese invece il primo è host mentre il secondo è guest. E se la formula magica nella prima parte è “I am your host and you are my guests” nella seconda il messaggio di entrare in punta di piedi in una nuova stanza e rispettare le altre persone diviene ambientalista ed ecologista. E' la terra che diventa chi ci ospita, the Earth, mentre noi non siamo i suoi padroni ma i suoi ospiti, tea ceremony 3.jpgospiti che devono lasciarla più intatta possibile nel loro passaggio misero e minuto. E le mani, come i piedi, si muovono lenti, così come il ventaglio e il raso che fruscia. Al suo fianco un vaso con un fiore dentro caduto a terra, simbolico, tragico, epilogo caustico. Questa strana geisha credibilissima ci racconta di una bellezza da rispettare, quella bellezza che attorno a lei non si vede tra un ventilatore a terra, varie cianfrusaglie che non apportano magia, alcuni attrezzi per fare il tè ma, come dice lei stessa, per fare il tè ci vuole il tè e noi non lo abbiamo. Somiglia a Sean Penn nel sorrentiniano “This must be the place” con quell'impasse, quella stessa flemma quasi letargica, compunta e soffice e tenera. Appaiono delle fotografie da appendere e qui il gioco si fa interattivo (per la verità lo è fin dall'inizio) chiedendoci che cosa stiamo vedendo con più opzioni bislacche e consumistiche per camuffare l'amara verità: ecco le mondine che coltivano appunto le foglie di tè, schiena curva e fatica, donne che vanno a prendere l'acqua compiendo decine di chilometri al giorno in Africa, ultima una città distrutta, che sia guerra o terremoto. Il suo è un canto doloroso, un urlo muto e piccolo, un piccolo grido microscopico in mezzo al rumore lancinante. Lasciandoci con la massima, banale se vogliamo ma alla quale non diamo troppo peso nelle facezie inutili delle quali infarciamo le nostre giornate: “Il tempo è la maggior ricchezza che abbiamo a disposizione”. Purtroppo ce ne scordiamo spesso, per sopravvivere.

Di tutt'altro tenore, anche se anche qui si parla della condizione della donna (e vagamente il parallelismo con la geisha non è campato in aria), ma sempre da sottolineare, è la nostra “Super Casalinga” un'eroina (più anti) che grembiule e cencio in testa, come la Mami di Via col Vento, beve Red Bull per caricarsi e per cominciare la giornata di olio di gomito, di lena a pulire, spolverare, lucidare. Con musiche sottolineanti leggere si muove con le pattine su un'impiantito brillante dopo aver chiuso con mille mandate e chiavistelli la porta della propria abitazione. Il mondo sta chiuso là fuori, il suo mondo è soltanto questo, fatto di oggetti, di proprietà privata, di silenzi. Già perché la geisha nostrana Supercasalinga.jpg(Roberta Paolini frizzante) è sola al mondo: il marito è defunto, ma lei ci parla attraverso la sua fotografia (si scoprirà che è un famoso personaggio simbolo di prodotti per la casa), anche la madre è morta ma le parla attraverso un suo grande ritratto impartendole lezioni di vita su come essere una casalinga perfetta. La sua droga è l'odore del sapone liquido, il suo doping è sniffare l'aroma dei detersivi alla candeggina, il suo sballo è l'ammorbidente mischiato all'amuchina. Carezzandosi con cenci nuovi per pulire prova quasi un orgasmo e gira con una gigantesca lente d'ingrandimento per scongiurare le macchie più ostili e soprattutto per scovare anche quelle più nascoste e tignose. Anche quando balla il twist con il fondoschiena pulisce mobili e sedie dalla polvere, fino a quando non intrattiene un corpo a corpo con l'aspirapolvere, un aggrovigliamento con punte d'erotico mentre il tubo si fa fallico attaccandosi ai suoi seni, al pube, di lotta di Tarzan nella foresta, pare un anaconda che la vuole strozzare, un boa constrinctor che la vuole soffocare nel bacio della morte. Ora danza scatenata come Freddy Mercury in “I want to break free” (anche lui nel video era vestito da casalinga disperata) oppure saltellando come gli AC/DC. La guerriglia finale è con una macchia di umidità e muffa che sembra cosa viva e pare indistruttibile, indistruttibile. 

supercasalinga2.jpg

E' il Far West de “Il buono, il brutto e il cattivo” con un duello all'ultimo straccio dove scende in campo un'attrezzatura in stile Chernobyl. Come una strega mischia polveri, detersivi, saponi, intrugli e pastiglie e odorandolo balla il moonwalk e muove la testa come Totò. Nella vittoria finale con la macchia (c'è un che di psicologico e metaforico) c'è tutta la sua liberazione, nei confronti della madre e del marito che anche da defunti le davano ordini e indicazioni e la facevano sentire inferiore e sempre in difetto e in debito. Una liberazione che però non porta i frutti sperati perché la donna non rinnega la sua precedente esistenza rinchiusa nelle sue quattro mura linde uscendo finalmente e godendosi il tempo che finora ha buttato pulendo ma si mette un grembiule glitterato continuando comunque a lucidare ma indossando un abito da lavoro più luccicante e fashion. La casa è pulita ma la tristezza è che non c'è nessuno accanto a lei a “sporcarla” vivendola.

Al contrario siamo rimasti sconcertati da “Skua 1940”, una storia di guerra, la Seconda Mondiale tra inglesi e nazisti, affrontata da giovani attori (la compagnia La Ribalta di Novara) con sufficienza, pressappochismo, e quella frivolezza che trattando alcuni argomenti non puoi proprio permetterti. Siamo in Norvegia e in un cascinale abbandonato nella neve si rifugiano tre soldati tedeschi Skua 3.jpge due aviatori inglesi. Da subito il battutismo e il gusto della comica forzata ha preso il sopravvento ricordandoci tutti i b-movie in stile militaresco nostrano anni '60 dove celebri cantanti dell'epoca (ad es. Morandi) recitavano nella parte di se stessi alle prese con la naia tra battute scontate e fastidiosi ammiccamenti. Innanzitutto i cinque si parlano e subito si capiscono, in che lingua parlano non ci è dato saperlo. Ci dicono che in Norvegia ci sono i pinguini quando questi animali vivono al Polo Sud, per non parlare della musica che parte da un grammofono (siamo in pieno tempo di guerra e nella capanna sono presenti stufa, cibo, alcool, strumenti musicali e dischi) che è chiaramente di stampo irlandese-celtica. Il tutto si fa poco credibile tra una rincorsa, facce e toni parodistici, e un'aria bonaria di fondo da commediola che li fa diventare cinque boy scout che si sono persi nella neve o una squadra di calcetto negli spogliatoi tra confessioni e amicizie. C'è una sola pistola ma le due fazioni se la scordano o la passanoSkua.jpg (in)volontariamente agli altri ribaltando le posizioni di forza, la lasciano sul tavolo in un clima cameratesco da gita scolastica e da volemosebbene. Non si sente la sostanza, la possibilità di scivolare tra la vita e la morte. E poi malintesi e qui pro quo che appesantiscono il claudicante racconto. Il gioco con le tazzine e i piattini è terribilmente e scadentemente copiato spudoratamente (peggio, molto peggio) dal cult “Thanks for vaselina” di Carrozzeria Orfeo. Quando suonano fisarmonica e chitarra ci troviamo immediatamente in uno stanzone da Oktober Fest. Vorrebbero arrivare all'assurdo di “Catch 22” o alle iperboli tarantiniane in “Bastardi senza gloria” ma la pasta è di tutt'altra forma. Insopportabile anche l'occhieggiamento ruffiano dicendo la battuta verso il pubblico con fare sornione da varietà, con quei gigioneggiamenti caricaturali che il tema non doveva prevedere. Buoni sentimenti stucchevoli con finale che si risolve con un epilogo prevedibilmente imprevedibile oltre alla mielosa “Over the rainbow”, sciorinata in varie salse, che inneggia all'amore, alla fratellanza e alla solidarietà. Restiamo umani va bene, ma non così.

Tommaso Chimenti

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM