PRATO – “Le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire, strette tra i denti, risparmiano i presenti, immaginate, sentite o sognate, spade fendenti, al buio sospirate, perdonate, da un palmo soffiate” (Pacifico, “Le mie parole”).
Negli ultimi anni si sono affacciati nei teatri personaggi che niente avevano a che vedere con la scena, con la messinscena, con il teatro: da Beppe Grillo a Travaglio, da Federico Rampini a Francesco Piccolo, solo per citarne alcuni. Alcuni fanno comizi, altri sono veri e propri affabulatori; Michele Serra invece è un comunicatore, che da anni porta in giro la sua “Amaca di domani” (visto al Politeama Pratese; dalla striscia “corsivo” che quotidianamente campeggia su La Repubblica), è un carismatico timido che arringa le folle sommesso, a bassi decibel con l'intelligenza del sarcasmo e la consapevolezza della sua scrittura, brillante, ficcante, puntuale, precisa. Con la sua “Amaca” ha affrescato tutti i giorni in questi ultimi trent'anni la nostra Storia, quella delle vicende italiche, politiche soprattutto, ma anche di costume, commentando notizie più o meno grandi, donandoci un punto di vista mai banale o scontato ma sempre pensato, riflessivo, ponderato. Interista convinto, di sinistra, cresciuto a Milano, prima a L'Unità poi a Repubblica, L'Espresso, soprattutto Cuore. Quello che ci mette, con la sua calma e aplomb, leggerezza frugale e profondità mai pesante. Il suo monologo (anzi un dialogo con la mucca in scena; è del '97 il suo libro “Il ragazzo mucca”) è una lezione di giornalismo che diventa ben presto una lezione di vita senza moralismi, senza farsi guru, senza diktat, senza regole. Ci appassiona con il suo disincanto, senza cinismo, ed equilibrio nel rappresentare e tratteggiare le faccende di casa nostra.
Dietro sul fondale passano nuvole pasoliniane prima e cadono parole dopo, come nel videoclip di “Alphabet Street” di Prince. La mucca, con la sua aria sorniona e con il suo modo di stare al mondo che sembra che niente la tocchi né la sfiori, potrebbe stare ore a guardare un punto nell'infinito. La mucca, gli animali, sono il silenzio, mentre l'uomo parla, pure troppo, deve dire, farsi un'idea, comunicarla a voce alta necessariamente. La sua professione è stata ed è avere un'opinione sul mondo, sulla cronaca stringente, sull'attualità concreta e vivida del momento. E' autorevole senza mai essere né spocchioso né arrogante nell'esprimere la sua visione dell'intorno con un'intelligenza ferma, spigliata, elettrica e saggia mai noiosa né didascalica né accademica. Certamente non si mette sul piedistallo per spiegarci la vita, anzi è proprio un intellettuale che si muove attraverso il dubbio, la domanda, l'incertezza, l'indecisione, senza certezze ma solo supportato dal ragionamento e non da verità dogmatiche strumentalizzate. Non ha pretese di insegnamento né di avere la verità in tasca.
Ha vissuto di parole e le parole sono state sue amiche (assonanza con amaca) ma le parole possono essere a volte anche pericolose, possono essere un'arma. Il suo pubblico lo conosce per la carta stampata, infatti l'età media è over fifty: fa sorridere, ma anche fa venire nostalgia e tenerezza per gli anni passati e ormai alle spalle, l'elenco delle cose che le giovani generazioni non hanno né visto né conosciuto come i telefoni a gettoni o le cartine stradali per muoversi in auto, i 45 giri. Ci fa sentire un po' meno soli. E ci fa entrare nei giornali degli anni '70-'80, le rotative, il senso tattile del cartaceo caldo appena stampato, il nero dell'inchiostro, la magia della carta scrocchiante sotto le dita, il prodotto realizzato grazie alle intelligenze di tante persone che hanno lavorato insieme. Ci racconta delle sue Amaca e non è mai una mera narrazione privata e personale ma ci fa sorridere perché apre spiragli e squarci dentro la nostra Storia comune, da Berlusconi fino a Rocco Buttiglione con quella fine ironia che ci fa godere cerebralmente, mai sprezzante neanche dell'avversario politico più odioso, ma sempre intento a sottolineare più i vizi che le virtù della nostra classe dirigente o del nostro popolo perennemente equilibrista tra le stelle e il ridicolo.
Le parole sono state il centro della vita, professionale e non, di Serra, “Le parole sono potenti”, perché danno corpo a pensieri e sentimenti. Poi entra nel vivo, sviscera i suoi ricordi, ci apre il baule della sua memoria, la sua famiglia, un padre silenzioso, gli studi, gli incastri della vita, le coincidenze, le fortune, i percorsi e quella “sindrome dell'impostore” che non lo ha ancora abbandonato (lui che ha scritto libri, condotto programmi, fatto teatro, diretto giornali, figuriamoci noi comuni mortali). Cita Marx e Gramsci e poi accenna William Blake e Carmelo Bene fino a Dino Campana senza ergersi sul podio, ci dice che imparare è una fatica e che “le parole identificano chi le usa, raffigurano te stesso”. Un pozzo di scienza senza farla cadere dall'alto. “Le parole ci fanno compagnia”, “Usiamo le parole per farci coraggio”, “Le parole servono per mettere un po' di ordine nel mondo, per dare un nome alle cose che non riusciamo a dominare”. Un gran bel respiro di cultura. Una fortuna averlo ascoltato.
“Le mie parole son capriole, palle di neve al sole, razzi incandescenti prima di scoppiare; sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare, piccoli divieti a cui disobbedire” (Pacifico, “Le mie parole”).
Tommaso Chimenti 09/05/2023