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Medea: una madre simulacro del disamore

In prima nazionale al Teatro Mercadante di Napoli, lo scorso 16 marzo ha fatto il suo debutto il nuovo, atteso spettacolo diretto da Liv Ferracchiati: Medea. Una madre, una produzione del Teatro di Napoli–Teatro Nazionale e TPE Teatro Piemonte Europa.

Non stupisce che sia la regia di Liv Ferracchiati – che ha firmato la pluripremiata Trilogia sull’Identità (Peter Pan guarda sotto le gonne, Stabat Mater, Un eschimese in Amazzonia) – a consegnare al pubblico una rivisitazione inedita, eppure straordinariamente fedele alla versione euripidea, di una delle più rappresentate tragedie dell’antichità: Medea, personaggio tanto conosciuto quanto controverso, per molti aspetti spaventoso – e, in quanto tale, condannato a priori a un giudizio distaccato. La donna che, innamorata di Giasone, ha tradito la sua famiglia per consentire la fuga degli Argonauti segue il suo sposo a Corinto soltanto per vedersi ripudiata: per avere diritto di successione al trono, Giasone deve infatti celebrare le nozze con Glauce, la giovane figlia del re Creonte. La vendetta di Medea non conosce limiti: ella avvelena la futura sposa e suo padre e, per cancellare ogni traccia del legame con Giasone – e per distruggerlo – giunge persino ad uccidere i propri figli.image_6483441 (1).JPG

Tutto questo, nella drammaturgia di Ferracchiati e Piera Mungiguerra, trova il suo posto insinuandosi nei numerosi flashback: in un rovesciamento inaspettato di punti di vista, stavolta a raccontare l’accaduto sono i figli di Medea e Giasone - Mermero e Fere, impersonati da Anna Coppola e Francesca Cutolo – che, spaziando dai testi di Euripide, Seneca e Pasolini fino ad arrivare ad Antonio Tarantino, instaurano un dialogo originale tra loro stessi e il pubblico, librandosi sapientemente dalle rievocazioni solenni a un ben più intimo e riflessivo hic et nunc. Una scelta coraggiosa che, forte della potenza del mito, lascia la parola alle vittime – le vittime di quel complesso di Medea che Jacobs identificò nel lontano 1988 – che sanno rivelare qualcosa di più sull’identità della madre, sulla donna che era prima che diventasse un’assassina. Senza difendere né additare la colpevole, lo spettacolo ci racconta di Medea – e, più in generale, delle donne - che hanno vissuto e vivono una vita di rinunce, spesso in relazione al rapporto con gli uomini: prima di lasciarsi andare a una sconfinata vendetta, Medea ha infatti amato oltre ogni limite, allontanandosi già allora e forse più del consentito da sé stessa e dalla propria integrità.

E difatti, la drammaturgia assume qui una funzione precisa che, tuttavia, non dà segni di pretendere risposte, ma desidera espressamente interrogarsi: il nome Medea si sveste di quei connotati negativi che fanno di lei la donna scaltra e astuta che medita la rovina altrui, per restare su un terreno più neutro – sempre riconducibile alla sua etimologia – che si rifà al verbo greco μέδομαι (médomai), "riflettere su qualcosa". Il dialogo dei due figli è infatti una riflessione che, pur dolorosa e intima, desidera aprirsi agli spettatori, coinvolgerli anche con ironia in un’indagine pericolosa ma necessaria: perché Medea ha ucciso?

Al centro della scena c’è una teca, che si presenta come lo strumento attraverso cui restituire l’immagine (o più d'una) di Medea. Restituire, ma anche sciogliere un enigma irrisolto, servendosi di una linea rossa - una sorta di confine - che accompagna le due attrici in un processo di identificazione e distacco. Questa demarcazione, oltre ad essere una scelta scenografica funzionale all’azione, stabilisce un dentro e un fuori. È Medea stessa a muoversi - pur stando immobile nel suo scrigno - tra due versioni di sé: è una madre, ma anche una donna ostinata nella sua follia, irrazionale, complessa. Quella linea rossa segna un limite, ma è come se offrisse anche un’opportunità di scelta. Cosa sarebbe preferibile: dimenticare, perché è scordando che si può vivere, o ricordare, valorizzando il dono della memoria?

L’utilizzoimage_6483441.JPG delle luci, delle note di Luigi Cherubini e della voce di Maria Callas, seguono il flusso dei pensieri delle due attrici, adattandosi al loro ritmo altalenante e alle loro prese di coscienza, a volte ironiche, a volte sofferte. Anche nelle loro interpretazioni, infatti, si avverte una doppia necessità: quella di nascondersi, di restare ancorate - e protette - dal confine, o guardare oltre con verità, cercando risposte. Superare quella soglia significa anche approfondire quella ricerca ossessiva, in un continuo ribaltamento di prospettive, che si rilevano - in alcuni casi - un’arma a doppio taglio. Medea è stata donna per un giorno e poi madre per sempre, o il contrario? Il concetto di dualità si riallaccia a termini come trasformazione, unione, connessione, relazione. Espressi attraverso la musica e la danza, o anche semplicemente tramite gli sguardi di intesa o straniamento. Con un andamento ondivago, le due protagoniste vivono di continui capovolgimenti, talvolta vittime, talvolta carnefici.

“Io non guardo per terra, ma per aria”, così inizia il racconto delle due interpreti. Un incipit rivelatorio, che introduce ad un racconto sul disamore, sul potere, sull’inganno. Ne viene fuori un’immagine destrutturata, incoraggiata da due performance che - nonostante la loro impeccabilità - sembrano essere libere, persino improvvisate. Questo consente al pubblico di partecipare, sentendosi parte di quel tormento, di quel “cuore che arde di ira”, che rinfaccia l’amore. I pensieri delle due attrici si alternano, in modo frenetico e in alcuni momenti più lento, dando agli spettatori la possibilità di prendere parte a questa ricerca identitaria, a loro volta riconoscendosi in una dualità. Sono le due interpreti a veicolare turbamenti e desideri di Medea, non risparmiando alcun aspetto, in modo brutale e coraggioso. Alla fine del percorso ci si chiede - inevitabilmente - se a ricordare non ci si guadagni solo odio ed incertezza.

Mariantonietta Losanno, Annateresa Mirabella 24/03/2023

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