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“Le Marocchinate”: quando i liberatori si trasformarono in aguzzini

ROMA – Di alcuni argomenti in Italia è difficile parlare, anzi è meglio non parlarne proprio, perché alla politica fa più comodo mettere la polvere sotto il tappeto invece che affrontare il tema e aiutare chi ha subito danni e ingiustizie. E' capitato con le Foibe, è successo con “Le Marocchinate”, frutto di un'indagine sul campo che il narratore (attore è troppo semplicistico) Ariele Vincenti ha condotto per oltre un anno insieme a Simone Cristicchi. Perché ci vuole coraggio a far riemergere queste pagine talmente assurde e vergognose da far accapponare la pelle, violenze su gente inerme da parte di chi era stato chiamato per liberare, aiutare, dare una speranza. Vincenti ha una sua verità intima, profonda, non va in scena ma fa teatro (è profondamente diverso), scandaglia le storie, le fa proprie, le annusa, le indossa, le veste, diventando una cosa unica con l'argomento, lo studia, lo approfondisce, diventa una sua seconda pelle. E la sua passione non è effimera per la resa sul palcoscenico ma gli rimane attaccata addosso, alle ossa, e questo si vede quando, a fine di ogni replica, decine di persone lo aspettano per conoscere ancora altri aspetti legati delle vicende narrate, sapere oltre lo spettacolo visto.9f228de98ab6b1a797d248b6ff65f158.jpg

Per Ariele (con la regia di Nicola Pistoia) la rappresentazione non inizia a teatro né finisce con gli applausi, le storie gli abitano dentro e le porta avanti con il sorriso dell'uomo buono (quello che subisce le angherie della vita) e con la coscienza pulita e l'animo candido sa che, prima o poi, ci sarà una Giustizia che riequilibri lo schifo patito, i traumi, le malefatte. Il suo è un racconto per portare alla luce, e far conoscere, un pezzo di Storia tutta nostrana che è stata celata e messa da parte, perché non faceva comodo che si sapesse, considerata dalle alte sfere politiche come un “effetto collaterale”, un necessario inferno contro una popolazione senza difese. Vincenti ha un'umanità e un'umiltà che traspare, che trasborda dal palcoscenico alla platea (e questo la gente lo sente chiaramente, per questo è così amato e trattato come uno di famiglia), una pulizia di sentimenti, un animo limpido non di chi sa arrogantemente di essere dalla parte della ragione né di chi cerca vendetta ma di chi, attraverso la Verità, vuole soltanto mettere sul piatto i fatti, esporre senza strumentalizzazione politica gli accadimenti senza cercare plausi e allori personali, con la semplicità di chi sta facendo un servizio ad una collettività alla quale era stata nascosta la realtà per decenni.

Con l'espediente di un pastore-narratore, un quasi San Francesco (c'è stata una grande ricerca anche sulla lingua da usare sul palco, uno studio su un dialetto verace e sgrammaticato ma sincero della Ciociaria), ci fa entrare poco a poco dentro la vicenda e ci culla in questo stato ipnotico e bucolico al quale ci lasciamo volentieri andare, fatto di pecore e di vita sana all'aperto, dei frutti della terra, di balle di fieno, di contadini. A piccoli passi a ritroso il verdeggiante e frescheggiato affresco di campagna lascia il posto al terrore più infimo e profondo, all'offesa più marcia, alla paura senza scampo. Durante la Liberazione dai tedeschi, americani e inglesi avevano perso migliaia di uomini sulle colline laziali non riuscendo a stanare i nazisti che lì si asserragliavano e si arroccavano. L'idea venne all'alleato francese: assoldare le “bestie marocchine” che, abituate ai corpo a corpo nella boscaglia e a condizioni di guerra estreme, avrebbero potuto sconfiggere quelle armate nei boschi ispidi e difficilmente raggiungibili.

Così 14115017_1012590275524064_3933070928422956806_o-1.jpgfu; l'ignobile premio dei francesi ai marocchini per aver portato a termine la missione fu che per due giorni avrebbero potuto fare qualsiasi cosa, sul terreno di conquista e alle popolazioni di quei paesi. Piccoli centri dove gli uomini o erano morti in battaglia o erano lontano a combattere, piccoli centri dove erano rimaste donne, anziani e bambini. Fu un massacro di migliaia di donne violentate e uccise come furono trucidati i nonni o i figli che tentarono inutilmente di salvare dalle sevizie quelle ragazze umiliate, vilipese, distrutte nel fisico e nell'anima. Uno scempio difficile da capire, una devastazione, un'angheria, una tragedia, una carneficina, una distruzione, uno sterminio, una strage degli innocenti che non può avere scusanti né giustificazioni. Una storia sconosciuta avvenuta in una terra sconosciuta. La povera gente andava incontro alle truppe marocchine (addirittura De Gaulle li incensò per la loro opera e il servizio prestato alla guerra) che entravano nei paesi trionfanti per aver cacciato i tedeschi, e andavano incontro loro con il sorriso della salvezza e la riconoscenza e i grazie e subito iniziava il martirio, le violenze indicibili, il sangue tra lo stupore di non riuscire a capire come il tuo salvatore si fosse trasformato immediatamente nel tuo peggior boia e aguzzino. Si sta male nell'ascoltare queste parole che non cedono alla morbosità ma comunque le urla, gli strepiti, lo strazio non possono non entrare sottoAriele-Vincenti-1.jpg pelle.

Il nostro contadino racconta la sua vicenda personale ad un giornalista (che si scoprirà essere Enzo Biagi, l'unico che dette minimamente conto dell'accaduto, raccontando una storia laterale) che, nella finzione scenica, era arrivato in questo entroterra, per documentare quello che era successo: i preti impalati, una generazione dilaniata e distrutta, le malattie. Beffa nella beffa, negli anni '50 si chiese in Parlamento un risarcimento per le migliaia di vittime ma il caso fu derubricato perché non c'erano le denunce e i politici dicevano che erano storie inventate per ottenere soldi da parte dello Stato. Ulteriore scandalo e pena subita da queste donne fu anche il ritorno a casa degli uomini dal fronte che, avendo saputo delle violenze subite, non solo non ebbero nessun moto di vicinanza verso le loro compagne e mogli, ma anzi da quel giorno in avanti le trattarono con il disprezzo e con ulteriori violenze psicologiche e fisiche che si possono concedere a delle bestie appestate. Questa è una macchia nera indelebile e per fortuna ogni tanto c'è un narratore che ci ricorda a che cosa serve il teatro, a far passare le storie, ad indignarci, a chiedere giustizia. Abbiamo bisogno di dieci, cento, mille Ariele Vincenti.

Tommaso Chimenti 16/05/2023

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