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Marika Pugliatti al Piccolo Teatro Patafisico con “SU – A”: una riflessione sul mestiere dell'attore

A Palermo, nel padiglione 33 dell’ex manicomio in via La Loggia n° 5, esiste una realtà gestita dalle Comunità Urbane Solidali: il Piccolo Teatro Patafisico, il cui nome si ispira alla suggestione artistica nata grazie all’autore del noto “Ubu Roi”, Alfred Jarry che definì la patafisica come “la scienza delle soluzioni immaginarie".
Non è facile arrivarci e il corridoio che ti spinge dentro è tutt’altro che accogliente ma, se si ha un po' di pazienza e la voglia di assistere a uno degli eventi in cartellone, presto si dimenticheranno gli aspetti angusti per assaporare solo quelli positivi.
È il caso della serata unica in cui l’attrice Marika Pugliatti, orgoglio siciliano di recente scelta per il ruolo di Clitennestra nell’Orestea di Romeo Castellucci, porta in scena “SU – A”, un profondo, viscerale e intimo spettacolo in continuo divenire ormai dal 2013.
In un’intervista l’attrice descrive la particolare evoluzione della sua opera: “il lavoro nasce dallo spettacolo, Saggi d'autore di Giuseppe Cutino, in cui c'era un grande mercato degli attori dove ognuno vendeva dei monologhi, dei racconti. Da lì le esibizioni presso l'associazione “Le mosche” con una performance no limits che durava otto ore, le otto ore lavorative. La drammaturgia dunque è una sorta di diario, composto da quattro monologhi, un'introduzione e un epilogo, i primi due sono dei testi che ho portato in scena durante la carriera, gli altri due dei desideri da attrice che ho riscritto e riadattato a secondo di come andavano le prove”.
Una fila di candele accese lungo i due lati del corridoio, delimitano lo spazio in cui il pubblico è invitato a muoversi dall’interprete che, nelle vesti di una domatrice di circo risoluta, introduce lo spettacolo a suon di “Avanti, avanti, avanti, signori! E voi, gaie signore, entrate nel serraglio! Vi potrete ammirar, con freddo orrore o con ardente voluttà, la Bestia senz’anima che il nostro genio doma”.
Una volta sistemati tutti tra le sedie e le poltrone, l’attrice prende possesso del palco, con movimenti lenti, si spoglia, si mette a nudo e si riflette negli specchi che caratterizzano la scenografia, e con essi, forse, costringe anche noi a riflettere. In una lingua “antica” mostra una riflessione personale sul lavoro dell’attore, attraverso una mutevole azione teatrale di quattro posizioni, sulla sedia, al muro, al tavolo e al buio. È capace di instaurare immediatamente un rapporto col pubblico, lo vive fisicamente, travolgendolo con la sua pelle morbida e profumata.
Interpretando una moderna psicosi delle 4:48, la tremenda follia di Ofelia, citando Ionesco e Valentin, pian piano Marika Pugliatti ci appare come un redivivo Atlante costretto a reggere l’intera volta celeste, sembra, infatti, prendersi in carico il peso del lavoro attoriale per restituircelo attraverso il suo corpo possente, la sua voce e, soprattutto, il suo sguardo dal potere fortemente attrattivo.
Nel finale, tra gli applausi, non dimentica di dedicare questo spettacolo a tre dei suoi colleghi morti solo quest’anno sul luogo di lavoro: “siamo lavoratori, non siamo dei juke box, spesso non pagati, ma siamo dei lavoratori”.

Miriam Larocca 21/04/2016

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