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“Maria Padilha” e il “Laboratorio della vagina”. Al Fringe di Roma va in scena l’universo femminile

In quest’ultimo squarcio, adesso plumbeo, di una delle estati più calde che ricorderemo, continua, nella ritrovata Villa Mercede, il Roma Fringe Festival, un susseguirsi di spettacoli dal vivo che propone o comunque cerca di innescare quelle «scintille di rinnovamento teatrale» dai più considerato sclerotizzato – se non addirittura morto. Per fortuna, come ogni anno – e non senza difficoltà burocratiche – il festival romano del teatro indipendente nazionale e non solo, tiene duro, registrando una discreta partecipazione della cittadinanza. Così, tra volantini svolazzanti e attori/attrici che promuovono le proprie fatiche in scena nei giorni a venire, c’imbattiamo in due rappresentazioni che parlano di donne, due spettacoli molto differenti tra loro in fatto di drammaturgia e scrittura scenica ma accomunati dalla volontà, almeno in potenza, di dichiarare la nobiltà, la bellezza e la libertà della figura femminile nella “lotta” per un’affermazione emotiva e intellettuale. E se uno dei due, per quanto presenti delle “convenzionalità” nel modo di raccontare, riesce comunque a raggiungere lo spettatore, l’altro arranca e non poco nel trasmettere la forza drammatica racchiusa nella vicenda.
Sulle tavole del palco C fa la sua comparsa “Maria Padilha rainha do cabaret”, presentato dalla Compagnie de l’Hydre nella figura di Federica Castellano – qui in veste d’interprete, autrice e regista dellaMariaP1 messinscena. Maria Padilha, donna ammantata di mistero, che si muove tra realtà e mito, tra verità e illusione: sovrana della magia, protettrice delle prostitute, regina del cabaret. Un luogo in cui sentirsi se stessa per mostrare la propria vitalità e l’amore per il canto e la danza, seduttrice per natura ma votata alla sofferenza. Come entrando nel tendone di una chiromante, assistiamo a un viaggio a ritroso raccontato dalla donna con l’ausilio degli elementi della sua esistenza, appesi e posizionati su ogni angolo della scena. Un tavolino, tessuti colorati, un cappello e occhiali da sole, bottiglie di whisky e la valigia sempre pronta per fuggire da una realtà che costringe a un claustrofobico incedere. Maria diventa una viaggiatrice, nomade curiosa di luoghi sconosciuti – Parigi, Roma, Amsterdam – protagonista d’incontri amorosi felici a metà – con il sovrano Pedro, per esempio – che arricchiscono questo suo vagare alla ricerca, forse, dell’unica cosa possibile per lei, la libertà, nella celebrazione, quasi rituale, di quell’atavico legame con la terra intera e lo scorrere del tempo. L’attrice, così, immersa tra sonorità sudamericane, tenta di avvinghiare a sé l’universo di Maria e anche il nostro, non riuscendoci del tutto. Infatti, si avverte una certa “distrazione” e “imperfezione” nella resa, e così anche gli elementi su cui si punta maggiormente per di guidare l’interiorità del personaggio – la musica, il canto e il ballo – diventano troppo invasivi e addirittura superflui nella loro continua riproposizione che, invece di scandire un passaggio situazionale, per lo più emotivo, senza soluzione di continuità, denotano un’idea registica molto confusa che non porta nessuna evoluzione, nessun sentimento amorevole verso quella figura sì tormentata ma appena tratteggiata; insomma, nessun deciso affondo in quella preghiera, confessione, speranza, delusione, sessualità e fascino di una donna condannata non alla ricerca della serenità vitale quanto piuttosto a un percorso di espiazione di colpe addossatele per troppa allegra disinvoltura e amore, lasciando cadere tutto in un’eco che sfuma nella fresca aria romana. Rimane qualcosa di sfilacciato che cancella, purtroppo, la patina di “vita vera” che ricopre Maria, intenso e drammatico personaggio. Nonostante l’impegno sia comunque percepibile, questo risulta uno spettacolo per nulla riuscito né coinvolgente ma che potrebbe essere di un certo interesse, a patto di una maggiore cura e attenzione nei vari aspetti.
LabVagina2Di tutt’altro sapore, invece, lo spettacolo “Laboratorio della vagina (ovvero LOTTO per lei)” che, registrando il tutto esaurito, va in scena in doppia replica al palco B. La CNT (Compagnia Nuovo Teatro) tutta al femminile, guidata da Patrizia Schiavo – che, oltre ad essere in scena, firma il testo e la regia – confeziona una felice e ironica quanto intensa seduta terapeutica che coinvolge sette donne – più la terapeuta. Leggendo il titolo, per chi ha un po’ di familiarità con i titoli off americani, viene subito in mente quel fortunato “Monologhi della vagina” di Eve Ensler, di cui sicuramente il “Laboratorio” riprende l’impianto drammaturgico. Parlare dell’organo sessuale femminile partendo proprio dal suo nome, quel sostantivo sempre alluso con altri sinonimi – patonza, patata, fiorellino, gnocca, passera, cespuglio – perché il dirlo “non sta bene”. Tutte vestite di rosso, le donne si accomodano nell’ipotetica “stanza delle confessioni”, un circolo al femminile alla scoperta della propria sessualità, sotto lo sguardo benevolo della Venere di Willendorf che, in fondo alla scena, sottolinea quella sacralità dell’origine e fine di ogni cosa, la Grande Madre rappresentazione del femminile, dell’uterino che straripa come un’onda di mestruo. Così come debordante è la verve che viene sprigionata nel dialogo continuo tra le donne, prim’ancora che personaggi, che animano il confronto fatto di domande – ma voi ve la siete mai guardata? Se dovesse vestirsi, cosa le faresti indossare? Se fosse un film, quale sarebbe?
Dalle prime mestruazioni, alle più sopite fantasie sessuali, agli incontri con uomini ora vigorosi ora “stanchi”, lo spettacolo mette al bando l’ipocrisia di una cultura che si trincera dietro luoghi comuni e i tabù, sottacendo anche i soprusi e le violenze che ogni giorno subiscono migliaia di donne. Ed è qui che arriva la repentina svolta dello spettacolo: dal binario della comicità e leggerezza, tutto deraglia in dramma. Quello degli abusi, degli stupri, delle spose-bambine, di tutte quelle infami azioni che sporcano la dignità e la condizione della donna, che, nonostante i presunti tempi evoluti del pensiero della società, continua a essere umiliata. Un momento che probabilmente spinge troppo sul pedale del tragico, fornendo, però, allo stesso tempo, quel “pugno allo stomaco” per scuotere il pubblico. Se l’argomento, alla fine, non è del tutto originale per il mondo dell’arte performativa, il leggero sapore ruffiano dello spettacolo viene meno in virtù di una godibile messinscena, spedita, semplice, curata e diretta che tiene desta l’attenzione, grazie soprattutto al lavoro delle attrici che riescono a delineare, ognuna, un aspetto di quella che, alla fine, può essere assimilata a un’unica presenza femminile. “Laboratorio della vagina” è una celebrazione della donna per proteggerla, per affermarnee la femminilità, l’identità e il diritto di cercare e scegliere ciò che è meglio per se stessa in nome di una vita senza censura che non sottovaluti il potere e l’umano ruolo individuale troppo spesso svilito.

Marco La Placa 11/09/2017

Foto: Sergio Battista (“Laboratorio della vagina”)

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