“Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” (“Il Mercante di Venezia”, Antonio, atto I, scena I)
“Una bella giornata così brutta non l'avevo mai vista” (“Macbeth”, atto I, scena III)
“Gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano” (“Otello”, atto III, scena III)
Nello stesso giorno, il 23 aprile 1616, morivano, a migliaia di chilometri di distanza, due dei più grandi scrittori di sempre del Vecchio Continente, tanto da far supporre a qualche dietrologista e complottista che fossero in realtà la stessa persona. Ipotesi affascinante ma tesi impraticabile quella che vede Miguel de Cervantes e William Shakespeare essere un tutt'uno, due nomi per un solo corpo. Ma il Don Chisciotte che va con il suo ronzinante alla ricerca del vento giusto entra in contrasto con la staticità delle dodici sedie tutte differenti (e sedia nel gergo teatrale fa già monologo, diventa in un attimo parola e verbo, si scioglie nel flusso di pensieri, è sinonimo di orazione e affabulazione) che orlano la scena dove Maria Cassi cuce un nuovo esperimento teatrale continuando la sua intraprendenza internazionale. Stavolta, dopo la collaborazione con Peter Schneider, guru di Broadway e della Disney con il quale la direttrice artistica del Teatro del Sale fiorentino è volata a Parigi e New York con “My life with men and other animals”, il suo sparring partner, perché di una battaglia colpo su colpo si tratta, è Jack Ellis attore londinese tutto pane e Shakespeare, come nella miglior tradizione della Union Jack. Come se George Arliss incontrasse Gianburrasca.
E qui sta lo snodo di “Shakespeare mon amour” (un inglese e un'italiana hanno partorito un titolo in francese; le repliche andranno avanti per mesi) tra l'impostato, l'impomatato, tutto voce colta e accento british e la “sgangherata” toscana di casa. L'impertinenza del mimo e del clown accanto alla compostezza e alla linearità iperprofessionale dell'inglese scatenano un corto circuito che tocca, in maniera periferica certo e liminare volutamente, alcuni tra i capisaldi delle tragedie del Bardo, a cinquecento anni dalla sua morte. Tra citazioni, perfettamente eseguite oppure snocciolate con fare “cialtronesco” e maccheronico, tra impaccianti e caldi e pesanti costumi elisabettiani fuori moda (lei) o sandali improponibili anglosassoni e vagamente grotowskiani (lui), la nostra “discola” mette in riga l'attore con la maiuscola ora insegnandogli alcuni motti e proverbi vernacolari, con traduzioni slang-amatoriali, adesso dedicandogli Lucio Battisti e Mina (superbo Ellis calato nei panni di Alberto Lupo) o Paolo Conte. Un po' di Sale sul Globe.
La disputa dialettica e la contesa nazionalistica si sposta a Dante che diventa paladino di tutti i cittadini tricolori e baluardo da una parte nella difesa della lingua della Crusca e dall'altra nella controffensiva contro l'autore del “Mercante di Venezia” o dell'“Otello”, di “Romeo e Giulietta” come de “La Tempesta”. La scala a chiocciola in legno, a vista per la prima volta in questi undici anni da quando è aperto il Sale, è l'emblema e il simbolo della complessità e del vortice (somiglia allo schema del dna) dentro il quale finiamo leggendo Shakespeare, nelle sue infinite possibilità, nei suoi scarti semantici e psicologici, nelle variabili chiavi di scoperta e ribaltamento, di realismo come di metafora, del disvelamento del potere come delle macchinazioni dell'odio e della gelosia. Entrare dentro il mondo di Amleto e Iago, di Falstaff e Calibano, Lear o Shylock, Macbeth o Polonio, Macbeth e Malvolio, è una continua rincorsa e fuga, amplesso senza riposo e riflessione.
La Cassi gioca a fare l'ingenua naif al cospetto di un grande interprete della tradizione d'Oltremanica riuscendo nel tentativo, nella finzione scenica, di sciogliere il britannico rendendo le parole universali di Shakespeare terreno colloquiale e humus vitale trasversale, oggi come allora, a sfidare la polvere del tempo e le umane piccole disgrazie, il tutto con la leggerezza che la contraddistingue e quel modo, dinoccolato e spiegazzato, con i suoi suoni gutturali tipici, la sua “incoerenza” spensierata, le bretelle d'ordinanza, il moto perpetuo e le mille facce plastiche. Da oggi anche Shakespeare lava i panni in Arno.
Visto al Teatro del Sale, Firenze.
Tommaso Chimenti 18/11/2015