Una famiglia solo apparentemente normale, di quelle "normalità" da far indagare a fior di analisti, distesi sui dolorosi lettini chiodati dei propri ricordi. Questa è la famiglia di "Lucido", pièce teatrale in scena al Teatro Vascello fino a stasera: ironica, sopra le righe, aperta, giocosa, ma anche fragile e piena di significato. Già dalla prima scena il pubblico capisce che sta per assistere a un'esperienza che ha i contorni dell'assurdo: siamo in un ristorante, mamma e due figli aspettano di ordinare, l'improbabile cameriere si rende protagonista di una serie di gag dal sapore surreale. A un certo punto il figlio Luca (Antonio Gargiulo) si rivolge al pubblico e dichiara: "Questo è un sogno e io sono capace di controllarlo, da lucido".
E per la verità di lucidità ce ne sarà ben poca durante il procedere della storia: la sorella Lucrezia (Maria Vittoria Scarlattei) che torna dopo 15 anni a reclamare parte della sua eredità, la stessa sorella che da bambina gli aveva donato un rene per salvargli la vita. La madre Teté (Milena Costanzo), esilarante, tragica e assoluta padrona della scena, che non rinuncia alla sua vena ammaliatrice e nel sogno seduce il cameriere, che nella realtà (?) diventa il suo amante Dario (Roberto Rustioni). Lo stesso Luca vestito da donna per arginare l'incombenza della figura materna e la sua interferenza nelle sedute d'analisi e nella sua vita.
Su una serie di equivoci conditi da profonde riflessioni sul rapporto genitore-figlio, la psicoanalisi, la distanza e non ultima la scelta di porre fine alla propria vita (Luca voleva morire a 10 anni, quando pensava di aver avuto tutto, ma quel rene ha stravolto i suoi programmi), si avvita questa micro-saga familiare intervallata da lampi onirici che fanno chiedere spesso al pubblico se ciò che si sta guardando sia sogno o "vita vera", fino alla rivelazione finale, in cui viene stravolto tutto ciò che, con enorme sforzo di logica, si era tentato dal pubblico di giudicare "realtà". Un'operazione riuscita, quella dei due registi e interpreti Rustioni e Costanzo, questa di mettere in scena un testo dell'autore rivelazione argentino e premio Ubu Rafael Spregelburd, capace di toccare temi anche drammatici, con consapevole ironia.
Un meta-racconto che in sé contiene almeno altre due storie. Nota di merito a una profonda, ironica e alla fine anche tragica recitazione della Costanzo, capace già da sola di coinvolgere il pubblico portandolo dalla sua parte nell'ipotetico tifo sulle complesse dinamiche familiari.
La storia è ambientata a Buenos Aires e quasi tutto rimanda al testo originario (la critica agli yankee e all'impero Usa per esempio), ma qualche intervento sul testo per "italianizzarlo" e rendercelo più vicino, stona un po' con il contesto (si parla di quartieri e città sudamericane, ma poi si tirano dentro i nomi di Ramazzotti o Tiziano Ferro) e, nella recitazione, le cadenze di chiaro rimando geografico sono lasciate libere di esprimersi, per cui a un certo punto ci si abitua che una mamma del nord-italia abbia un figlio napoletano. Ma questo potrebbe far parte della recitazione "naturale e organica" che i due registi studiano nell'ambito della loro ricerca sui vari linguaggi teatrali.
(Rosamaria Aquino)