FIRENZE – Inevitabile, con un titolo così lungo, non pensare all'appena scomparsa Lina Wertmuller. Forse un omaggio del duo Nicola Borghesi, scrittura (in collaborazione con Daniele Parisi e Gioia Salvatori) e regia, e Lodo Guenzi, autore e attore. Un uomo solo su un palco gigantesco che all'inizio pare perdersi poi pian piano, attraverso i passaggi, le età, le delusioni, le sconfitte, se ne appropria, lo fa suo, lo riempie di corpi e di senso, lo colora sempre sul filo della commozione e dell'emotività. Lodo Guenzi, il frontman della band Lo Stato Sociale, ci dà una grande lezione di umanità. E' dimesso e sconfitto, è Paperino e Calimero, è un Woody Allen nostrano, è un ultimo di successo, è un perdente di lusso che improvvisamente è diventato “famoso” e ancora, con modestia e scarsa autostima, non si considera meritevole delle attenzioni e dei complimenti altrui, uno schivo, uno che vorrebbe stare nell'ombra e che invece ogni sera viene catapultato fuori a dire qualcosa, uno che si meraviglia ancora che gli altri trovino interessanti le sue parole, un umile che ha paura del microfono, uno stonato che è diventato qualcuno cantando. “Uno spettacolo divertentissimo” è un romanzo di formazione, un racconto della crescita personale, soprattutto interiore, di questo ragazzo che vorrebbe rimanere tale, che vorrebbe rifuggire le responsabilità (Peter Pan non c'entra niente), che vorrebbe scappare dal tempo che scorre, che vorrebbe sparire davanti all'adultità.
Tra un aneddoto giocoso e una parodia (Jovanotti e Roby Facchinetti), sempre senza prendersi sul serio altrimenti che gusto c'è, arrivano le stilettate ben assestate di malinconia e nostalgia e bisogno di calore; in questa sua Via Crucis ci presenta personaggi che lo hanno ferito, che lo hanno offeso o fatto sentire piccolo e insignificante, che lo hanno messo da parte e fatto sentire incapace, superfluo, emarginato: alla fine ha vinto lui, ad esultare è stato il suo gandhismo. Nessuna vendetta, nessuna rivalsa, nessuna rabbia nelle sue parole. Guenzi è uno che ce l'ha fatta e si sente in colpa proprio per aver avuto successo ed essere su un palco rialzato, nella luce, a raccontarci la sua storia che lui stesso in primis non avrebbe voluto che fosse stata eccezionale. Uno che voleva sparire con la carta da parati e che invece, dopo Sanremo e dopo essere stato giurato ad X Factor, si trova al centro dell'attenzione mediatica, sballottato, fotografato, cercato per un selfie: bidimensionale mentre ha una profondità esondante tutta da esplorare.
Due sono i cardini sui quali gira l'intero show, perché si tratta di una vera e propria autobiografia snocciolata costruita attraverso i ricordi più viscerali e toccanti di una giovane esistenza: la canzone di Endrigo “Io che amo solo te” che torna e ritorna e ancora che in definitiva è dedicata al suo primo vero amore, quello per il teatro, e un monologo che lo ha accompagnato dall'Accademia Nico Pepe di Udine, passando per un ragazzo che è morto in scena, per errore, sul palco. Refrain che ci lambiscono, ci scuotono, ci destano, ci prendono per il bavero, ci smuovono le coscienze dalla nostra comfort zone. Uno spettacolo utile per tutti quei ragazzi che non sanno quale sarà il loro futuro, che lo vedono nero e nebuloso, che non sanno che strada e che direzione prendere, che non sanno chi sono o dove vogliono andare, per tutti quelli che hanno paura del domani. Lodo Guenzi ci dice che ce l'ha fatta ma che lo stesso vorrebbe ancora essere quel ventenne con tutti i sogni intatti nello zaino: “Non so perché sono sopravvissuto”, confessa. Ci dice più volte: “Io ho paura” e passa onestà e verità e non solo drammaturgia. E ci dice che, nonostante tutto: “Io sono come te”.
Una riflessione (leggermente dilatata e large: 1h 45') dove appaiono, come epifanie da dribblare, persone e personaggi fulcri per ambire ai passaggi successivi, come un videogioco nel quale quel che vinci sei te stesso: i bulli a scuola che lo picchiavano, la scuola di recitazione, la ragazzina che si sente fuori luogo a X Factor e che lui deve giudicare invece che consolare e stringere, l'inadeguatezza provata a Sanremo, il sosia di Malgioglio con il quale condivide la tristezza nei confronti di quel mondo che ti inscatola, ti usa e ti isola, una ragazza bellissima che voleva assolutamente (e secondo lui inspiegabilmente) andare a letto con lui dopo un concerto, un regista che lo massacrava ad ogni prova: “Vi perdono tutti” catarticamente. Un one man show che è un reset, una ripulitura, un respiro per riprendere il fiato e ripartire.
Forse avrebbe voluto continuare a prendere treni regionali e frequentare piccoli teatri. Forse il sentirsi perennemente “sfigato” sarebbe stato meglio che doversi giustificare, con se stesso, soldi e fama. Forse sente addosso la “sindrome dell'impostore” “il fenomeno per cui una persona si sente incompetente e pensa di aver ingannato gli altri circa le proprie capacità, vivendo uno stato psicologico intriso di senso di colpa, mancata introiezione del successo”, come ben spiegano le psicologhe Clance e Imes. Il fondale di paillettes luccicanti è la maschera dello showbiz che tutto ammanta di riflessi e bagliori confondendo, traslando la realtà, trasformando anche le tragedie in qualcosa di amabile pronto ad essere “venduto” e digerito e “comprato” proprio perché tollerabile e accettabile. Caduto quello rimangono le impalcature e la scena per quel che è: sporca, sdrucita, certamente imperfetta e sbilenca. Come lo sono anche le vite “famose”. Lodo Guenzi si mette a nudo e ci incoraggia, ci infonde fiducia, non cerca nuovi fan ma persone con le quali parlare. Ha bisogno di raccontarsi. Le parole lo hanno salvato. Adesso vuole restituire questo dono con un mix di dolcezza colma di pietas e cinismo velenoso. Non è un superman, è per questo che ci piace ancora di più.
Tommaso Chimenti 12/12/2021