MILANO – “Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le iene” (Indro Montanelli).
Sono passati cinquant'anni dai cosiddetti “anni di piombo”, dalle stagioni del terrorismo che hanno infangato e impaurito l'Italia, ma è ancora difficile parlarne, complicato non giudicare, non schierarsi, impossibile rimanere, per chi li ha vissuti, impassibile e neutrale. Li abbiamo voluti rimuovere con l'euforia degli anni '80, la musica dance, gli elettrodomestici presi a rate del boom economico, i Campionati del Mondo di Pertini. Non ci siamo riusciti. I '70 stanno ancora lì imperterriti, impettiti, ognuno con le sue ragioni mentre il mondo intorno è cambiato, rivoltato, mutato, sventrato e quelle teorie e dogmi ci sembrano oggi così assurdi, così lontani, così distanti da poter essere capiti fino in fondo. Che cosa spingeva un giovane universitario a seguire l'influsso dei Cattivi Maestri, cosa portava un operaio ad abbracciare la lotta armata? Prendere una pistola e fare occhio per occhio, dente per dente?
E' per questo che l'operazione di Emiliano Brioschi (suoi testo e regia) risulta complessa e sfaccettata, dinamica e senza soluzioni: “Life”, un titolo di speranza, positivo, vita, una parola che sembra rifulgere, splendere, un termine che si getta a capofitto nel futuro. Invece, simbolicamente e ossimoricamente e paradossalmente, la sua scrittura parla costantemente di morte mettendo di fronte (anzi di lato senza mai guardarsi o sfiorarsi né toccarsi, storie parallele che non si incontreranno nemmeno all'infinito), a confronto il carcere di Ulrike Meinhof (interpretata da Cinzia Spanò, sempre dentro le parole), terrorista tedesca, con la prigionia di Roberto Peci, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni (come Aldo Moro, raccontato così bene da Daniele Timpano in “Aldo Morto”) di processo proletario illegittimo. Il campo è e resta scivoloso.
Un lavoro raffinato e diretto, schietto, che non cade mai nel banale, che non cede al sentimentalismo, duro in molti passaggi, violento, essenziale. Un lavoro nato dentro i giorni del lockdown: è proprio questo il tema che fa da sfondo a quegli anni, a quelle tensioni. La segregazione, la costrizione fisica, la prima (morta suicida nel '79) per mano dello Stato tedesco dopo aver perpetrato omicidi e altri reati gravi, il secondo, innocente, ucciso (nell'81 dalle BR) solo perché fratello del brigatista pentito Patrizio. Già nel mettere in parallelo queste due storie Brioschi ha dimostrato coraggio artistico, riabilitando la figura di Peci che per molti decenni è stato considerato un terrorista senza avere invece alcuna colpa, e dall'altro umanizzando (troppo) la figura della Meinhof che tribunali e leggi tedesche stavano facendo marcire in galera. Ecco è in questa parte, la più corposa mentre Peci-Brioschi rimane incappucciato e silente (parla per lui un video rimontato uguale alle riprese che le BR effettuarono processandolo), che abbiamo sentito uno stridore quasi di apologia non tanto delle gesta criminose quanto degli ideali professati e una critica forte, decisa, netta, energica allo Stato “fascista” che chiude, segrega, umilia, schiavizza, priva i cittadini anche se colpevoli. “Il riciclaggio presuppone che il danaro provenga dal delitto. E' sporco per la sua provenienza. Nel terrorismo è sporco per la sua finalità” (Pierluigi Vigna, magistrato).
Frasi come “Il suicido è l'ultimo atto di ribellione”, “Appropriatevi di ciò che vi è negato”, “Bisogna incendiare tutto”, “Intaccare la società dei consumi, distruggere i centri commerciali” non creano nessuna empatia per il personaggio e certamente non ce l'ha umanizzata. “Poliziotti e agenti in divisa sono bestie” e ancora “Il male è il prezzo della libertà” fanno sobbalzare sulla poltroncina dell'Elfo milanese, fanno alzare le difese, fanno sobbollire di rabbia. Questi invasati e fanatici, questi folli razionali, deviati, imbevuti e radicalizzati hanno sparso odio e morte e se decidi coscientemente e consapevolmente di fare del male lo Stato, ovvero le regole condivise di un popolo e di una Nazione, ha il potere di toglierti i diritti personali. Se Peci è tratteggiato come un innocente schiacciato negli ingranaggi di un gioco molto più grande del singolo, per quanto riguarda la Meinhof si sente un minimo, non di giustificazione, ma almeno di comprensione, di vicinanza se non di ammirazione per la fierezza e la forza, l'abnegazione e la barra sempre dritta senza piegarsi, senza pentirsi. Sono l'uno la faccia doppia di quegli anni quando qualcuno si arrogava il diritto di essere giudice super partes o di perseguire la violenza sociale e la guerriglia civile per il bene del Popolo senza che quest'ultimo fosse stato messo al corrente, senza che avesse avuto modo di esprimere le proprie idee, personaggi che si erano autoproclamati, autoesaltati, autoinneggiati. “Il terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano” (Gianni Oliva, storico).
Un testo (e una tesi di fondo) e una messinscena dolorosi e rigorosi quelli di Brioschi, intellettuale prestato al teatro, che crea discussione e divisioni, che fa nascere il dibattito, che ci riporta dentro quei fatti sui quali abbiamo operato rimozioni psicologiche salvifiche. Soffriamo, anche fisicamente, per il cappuccio nero asfissiante, e respiriamo a fatica con lui sperando nel perdono che sappiamo con certezza che non arriverà. Spanò e Brioschi sono credibili e le storie che riportano in superficie sono importanti da strappare all'oblio. Il terrorismo è stata una pagina fosca e buia di persone che giocavano a fare la guerra sulle spalle delle vite della gente comune, perpetrando una lotta destinata inevitabilmente alla sconfitta. Forse erano soltanto ambiziosi di potere, riempiendosi la bocca di slogan come “Potere al popolo” quando del popolo non avevano una grande opinione (patriarcalmente lo volevano istruire e instradare), volevano soltanto arbitrariamente, e non come avviene in un processo democratico, sostituirsi al potere costituito: “Volevamo che il popolo ci seguisse, poi ci siamo voltati e non c'era nessuno dietro di noi”. “Uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano d'essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia senza rendersi conto che i veri “figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall'altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia” (Mario Calabresi).
Se parliamo dell'estrema sinistra, sui 4.000 inquisiti (1.300 solo nelle BR) per reati collegati a gruppi terroristi italiani, sono in carcere soltanto ventuno reduci degli anni di piombo, undici irriducibili con l'ergastolo ma che non hanno mai chiesto la possibilità d'uscire, che dopo ventisei anni consecutivi di detenzione sarebbe stata concessa. La maggior parte è stata scarcerata e adesso sono liberi, molti sono diventati scrittori o opinionisti politici chiamati da giornali o tv compiacenti. Ma davvero ne valeva la pena? Da far vedere agli studenti delle scuole. “Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo” (Fernando Aramburu, scrittore basco).
Tommaso Chimenti 22/06/2021