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La normalità del Male: il teatro si fa thriller

Il Male è questione capitale. Mette in dubbio lo stare al mondo, il senso di avere una vita tra le mani in un tempo determinato, per farsene qualcosa. È normale, sul serio, soffrire così tanto nella durata circoscritta di una vita? Se lo chiedono Davide Tassi e Roberta Mattei, mentre recitano nei ruoli di Luca e Lella in “Liberaci dal Male” al Teatro Brancaccino, per la regia di Massimiliano Farau.
Le religioni hanno dato delle risposte. Quella cristiana dice che la sofferenza è necessaria per aprire all’uomo nuove vie di conoscenza. Si soffre per “salire più in alto”, per passare dalla lacerazione a un’unità con sé stessi, più forte e più evoluta. Se la fede in questo è salda, ci si salva. Pur se ci si professa atei o agnostici, la cultura occidentale è fortemente intrisa di questa “esaltazione del dolore”, come passaggio obbligato per una certa beatitudine. Ma una cultura che spinge alla fatica, alla prostrazione, crea in sé stessa alcune nevrosi: chi vi si ribella e chi vi soccombe, eterno avvilito.Liberaci2
Luca è un guardiano per una ricca famiglia, come lo era suo padre e come suo nonno. La vocazione al “servire” potrebbe parere connaturata, un ordine che mai andrà discusso. Un giorno si sveglia dal torpore di esistenze trascorse sempre uguali, sente tutt’a un tratto l’assurdità delle differenze di condizione sociale e decide di invertire la corrente: rapisce il piccolo in fasce, figlio dell’ingegnere per il quale lavora. Va a colpire il padrone dritto nella vulnerabilità degli affetti.
Il piano sembra perfetto, lo condivide con Lella, sul palco è sua moglie e nella vita quell’attrice appassionata di Roberta Mattei. Raramente capita di vedere in scena persone così devote alla recitazione. Il suo corpo magro sembra mosso dalla fede nel personaggio. Ne corrisponde le ansie e le paure, trattiene su di sé gli sguardi del pubblico che la sorvegliano con una distanza fatta di tensione e attese per ciò che avverrà sulla scena. Suo marito considera il bambino macchiato del peccato originario d’essere nato da un padre potente e sfruttatore. Per questo non merita pietà.
Una compassione verace e uno slancio alla nuova minuscola vita, all’opposto, smuove la moglie. Sarà per quel concentrato di possibilità future, ancora in fasce, che si scorderà del piano, dei soldi, della vendetta e si arrenderà naturalmente al perdono, prendendosene cura, proteggendolo dall’incuranza del compagno. È questa l’antitesi dell’odio, l’amore.
Siamo all’interno di una cucina povera. Il tavolo e le sedie in formica, un fornello elettrico da campeggio con cui scaldare il cibo. Una stufetta che funziona a singhiozzo e l’impianto elettrico che salta se si pretende più caldo di ciò che può garantire. La povertà rende affamanti di rivalsa. Ma fuori c’è la crisi, anche i ricchi si stanno impoverendo: le industrie falliscono, licenziano e spostano i capitali al sicuro, oltralpe.
Liberaci5Il male si fa “banale”: arriva un momento in cui ci si abitua, per sopravvivenza, quando si ha come il sentore che, a ribellarsi, si rischierebbe ancora di più. Così il rapimento si perpetua nei mesi e nel tempo che scorre si crea un legame affettivo. Per quanto sia umanamente spontanea una tendenza distruttiva che cede agli egoismi e alle vendette, la natura sociale dell’uomo è ancora più forte e ha la meglio. Le donne forse ci arrivano dirette, attraverso l’amore materno. I sensi femminili sembrano ancora più vigili, protesi a segnalare anche le sfumature, le oscillazioni negli eventi e nei rapporti: Lella sa che “la Signora”, la moglie del ricco, va a letto con Luca. Sa che quel bambino assomiglia a suo marito. Sa tutto ma accetta. È un “figlio di vita”, pur essendo nato nell’agiatezza. Ottenuti i soldi del riscatto, farà di tutto per tenerselo stretto. Ma poi ci si sveglia.
C’è quel momento in cui il male appare gli occhi con quella violenza negativa che allontana la vita. Chiamerà la madre del piccolo e non le resterà altro che abbandonarsi alla fede cieca, a una preghiera con cui forse non ci si salva, ma si trova appiglio a tutto ciò che ferisce. Il male scritto in questo testo da Giampaolo G. Rugo è quello che non vede, esasperato, spinto dalle condizioni precarie con cui stiamo al mondo. È la stessa cecità con cui, il 19 dicembre 2016, un giovane agente della polizia turca accede a un vernissage ad Ankara, vestito di tutto punto, e spara nove colpi di pistola alla schiena dell’ambasciatore russo che stava pronunciando un discorso d’inaugurazione. La fotografia dell’uomo steso a terra, esangue, e accanto il viso acceso dalla rabbia di vendetta del giovane, ha vinto il World Press Photo del 2017: è l’evento che riassume un anno, una parte della storia, il nostro tempo. Non è allora così impellente, così violento il richiamo delle parole: “E liberaci dal male”? Si scandiscono sulla scena, ci feriscono: il loro proiettile addolora ma poi il sangue scorre, le luci si riaccendono e la città ci inghiotte tra le strade e le nostre preoccupazioni. E non ci pensiamo più. È come dice Lella, in un momento di lucidità, al piccolo: “Io questa vita non l’ho proprio capita. So che a questo mondo c’è troppo male. Però tu sei vivo. E sei bello”. Perché la vita merita di continuare, sempre.
“E così sia”.

Agnese Comelli 17/02/2017

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