FIRENZE – “Se fossi un po più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe” (Gianni Clerici)
Da una parte c'è un muro inflessibile che si fortifica se si sente minimamente attaccato nelle sue certezze. Dall'altra la flessibilità, la possibilità. Da una parte la rigidità omologata, dall'altra la paura di essere giudicati. Da una parte c'è il seguire la corrente, quell'incasellarsi, quell'ingolfare la fila del “perché si fa così”, dall'altro un'indipendenza autonoma velata di ipocrisia per non farsi scoprire. Come davanti a uno specchio, la rete da superare, i nostri due tennisti si guardano, si studiano, si confrontano, vedendo le proprie mosse riflesse nell'altro. Una patina di leggero divertimento e un cuneo di profondo pensiero, come montagne russe, avvolge e spinge “Le regole del giuoco del tennis” (prod. Nuovo Teatro Sanità di Napoli) scritto da Mario Gelardi. I nostri due atleti non giocano contro ma stanno dalla stessa parte del campo in un doppio sotto rete. Sembrano dissimili, diversi l'uno dall'altro, lontanissimi. E in uno spirito cameratesco, di confessioni machiste e conquiste femminili il muro del non detto cade, le indicibili vergogne vengono abbattute, la coltre delle bugie si dissolve tra un lob e un passante da fondo campo.
Lo sport, lo sappiamo, è metafora della vita: c'è l'avversario da battere, un ostacolo da oltrepassare. Avversario e ostacolo, la maggior parte delle volte, siamo noi stessi. “Le regole” è l'affresco del nostro mondo, della nostra società, dove tutto pare certo e fermo, spiegabile con termini altisonanti, studi scientifici, documenti con linguaggio tecnico nella massima comprensione e spiegazione possibile: o stai di qua o stai di là. Tutto è semplice, se la vita fosse un manuale, una scienza esatta. Ma è all'interno delle regole dure e inflessibili che si aprono le possibilità delle sfumature, di tutti i grigi (noi, gli uomini) che stanno, vivono, soffrono, si muovono tra il bianco e il nero, i dogmi. Siamo tutti sbagliati proprio perché lontani anni luce dalla perfezione, per questo siamo tutti uguali, ognuno con le proprie scelte, tutte plausibili e con lo stesso grado di dignità.
Questi due amici (Carlo Geltrude e Riccardo Ciccarelli si combinano, si incastrano a meraviglia, opposti che si attraggono) si trovano, sembra casualmente ma evidentemente l'argomento pungolava e faceva capolino da tempo, ad affrontare il tema dell'omosessualità in un'altalena ironica e sentita dove sul piatto prima appare l'amicizia, poi la sincerità infine il sentimento. Ed è più facile accodarsi a un pensiero, sentendo di non essere soli, che per primi alzare la mano, avendo paura di non essere accolti, accettati ma anzi emarginati e rifiutati, scartati, messi all'angolo, in croce, in castigo.
Gli scambi tennistici (anche sudati, ci ha ricordato in questo “La maratona di NY” di Edoardo Erba), intervallati ora da liti e confessioni come dall'elencazione formale (“dura lex sed lex”) dei codici contenuti nella normativa che regola il play di racchetta e palle (anche qui, se vogliamo, un riferimento fallico), diventano ben presto coreografie sgrammaticate, balli di gruppi con velocizzazioni o rallentie dove i due caratteri stereotipati tratteggiati dei protagonisti (il single e il fidanzato, l'ignorante e l'universitario, il cinema sparatutto e il musical, quello alla moda e agiato, l'altro disoccupato, l'uno di mentalità aperta l'altro conservatore) si scontrano e si uniscono, si allontanano e si avvicinano, si repellono e respingono, si prendono e si dondolano, si spingono e si accolgono in una continua unione e lontananza, ricerca del contatto e dell'abbraccio geloso e rifiuto dell'idea di provare qualcosa per qualcuno del nostro stesso sesso.
Volteggiano di passi di valzer viennesi (la regia di Carlo Caracciolo è colorata e armoniosa nel suo impianto semplice e scarno ma fresco e agile come un ace), su punte da scarpe da ginnastica sgraziati “Sul bel Danubio Blu” come fossero Romeo e Giulietta o La Bella e la Bestia, Rapunzel o Biancaneve o La Bella Addormentata e il Principe, ma anche come Braccio di Ferro e Bruto (la canzone omonima di Samuele Bersani è in questo illuminante), o ancora Patroclo e Achille o Batman e Robin. “Le regole” ci dice di non aver paura e che le regole, nella vita, non esistono, o meglio, devono essere fatte proprie perché se vivessimo seguendo alla lettera le regole saremmo degli automi noiosi, invece siamo uomini e donne con le nostre fragilità e debolezze, lontani da una perfezione che in Natura non esiste. La frase: “A volte basta un fallo e la partita si riapre”.
Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 17 maggio 2016
Tommaso Chimenti 18/05/2016