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Le ossessioni di Pinter diventano materia viva con gli attori di Nanni Garella

BOLOGNA - Qualcuno li chiama “attori sensibili”. Forse definirli soltanto attori potrebbe essere la scelta giusta. Non per cercare una normalizzazione, etichetta che non esiste nella realtà, ma per esaltare quelle differenze che in teatro, meglio che in altri contesti e contenuti, diventano ricchezze, esperienze, possibilità, al di là di qualsiasi buonismo di facciata, solidarietà di maniera.
Da una parte Nanni Garella a Bologna, dall'altra i Lenz Rifrazione a Parma. L'Emilia che funziona. Lavori che toccano il sociale, ma opere che travalicano quella valenza per entrare in quella puramente artistica. E' per questo che definire queste compagnie e questi attori non porta una riflessione maggiore, non aggiunge: bisogna vederli e tutto si chiarisce. Attori che arrivano sì da un percorso psichiatrico alle spalle, o nel presente, e questo è molla e sostanza per esaltare testi e parole, per far vivere realmente ogni sensazione e sillaba letteraria che dalla loro bocca diventa carne, passato, coscienza.
L'operazione di Garella è quella di mettere i suoi dieci attori (con la sua aggiunta team di football) dentro le trame pinteriane, affidando gli “Atti unici”, colmi di ossessioni e chiaroscuri, di manie e punti interrogativi esistenziali, al suo gruppo. Ogni dialogo e scambio dialettico, ogni pausa e silenzio, ogni sguardo, torvo o assente, esplode, prende risalto e rilievo. In “Una specie di Alaska” (ricordiamo il recente per la regia di Valerio Binasco) una ragazza (ci insegue di colpo l'immagine di Eluana) si risveglia dal coma (ci ha ricordato il “Pinocchio” dei Babilonia). Come bella addormentata (appunto il film di Bellocchio), ibernata o sedata non riesce a riconoscere i contorni di una realtà che tutti quelli intorno gli indicano come familiare. Tutto sembra nuovo e vuoto, senza un apparente senso; mancano i cardini, manca il passato, il prima, come una logica che tutto riattivi e ricolleghi, riallacci e rileghi, ricucia assieme i fili di un precedente che si è perso. Si sente ostaggio e prigioniera, rapita e capro espiatorio, sensazione che il malato prova e soffre sulla sua pelle, l'inadeguatezza che genera paura e sconforto, rabbia e impotenza, impossibilità alla reazione, depressione, malessere che si aggiunge al malessere. L'Alaska, come sensazione, non deve risultare tanto più gelida.
Lo spazio è aperto, i cambi di scena a vista nella penombra che non si fa mai buio alle loro spalle, lasciando intravedere i prossimi passaggi della trilogia che si sta dipanando. Pinter ti attacca alla gola, piano piano ti soffoca con il suo respiro, ti chiede di lasciar perdere le sovrastrutture che ci siamo creati attorno alla parola “normalità”, nel quale contenitore ci siamo infilati, e di sentirci svuotati, come realmente siamo: fragili, soli, inadatti alla vita, perdenti. Pinter ci fa rendere conto di quanto l'uomo, da sempre, abbia lavorato per creare, abbellire, addomesticare il mondo e renderlo simile ad un parco giochi, divertimento ed edonismo, per poi, amaramente, accorgersi di essere il tradito ed il traditore, Pinocchio e Giuda. E se cade il castello di carte, pazientemente elaborato dalle generazioni, crolla il patto sociale con la “normalità”. Per questo Pinter detto e pronunciato dagli attori del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna è necessario, potente, corposo, un flusso che si fa materico, solido, concreto. Pinter di “assurdo” non ha assolutamente niente.
Pinter è gli incubi che si fanno reali e tangibili, presenti e martellanti. Ne “La stanza” (qualche anno fa visto grazie alla magnifica prova del Teatrino Giullare, anch'essi bolognesi) una lei logorroica ed un lui che stenta a monosillabi in quelle crepe che si formano tra il detto e il non detto. L'inquietudine, il precariato, economico ma anche l'incertezza del vivere quotidiano, il mistero che toglie punti di riferimento e fa costantemente sospettare, temere per la perdita, avere paura. E il timore peggiore è avere paura di avere paura.
E anche nella situazione che dovrebbe essere più conviviale, sociale e piacevole, una festa, in “Una serata fuori”, assistiamo prima ad un conflitto familiare madre-figlio a suon di sensi di colpa, a rinfacciarsi, senza vie d'uscita, in questi interni soffocanti tra gelosie e invidie, una cappa opprimente, successivamente al party, ad uno scherzo che diventa bugia e questa una piccola grande tragedia di insinuazioni, il tutto intriso di controllo sociale e oppressione. Questi luoghi angusti hanno la doppia valenza dei piccoli nuclei dei quali facciamo parte, e dei quali dobbiamo continuare a rispettare le regole sottese, e sono metafora del nostro pensiero costantemente messo in moto, acceso e pungolato dagli stimoli, dalle azioni, e quindi spinto alla reazione, dal mondo esterno in una concatenazione continua di offesa e difesa, di riposizionamento rispetto all'oggetto, alle persone, ai luoghi. Il “chi sono” che oscilla, si modella, tremola come gelatina o budino e poi si riassesta, sempre in cerca di un nuovo equilibrio, problematico, doloroso.
Usciamo con una sensazione di tremolio e terremoto sottile, sotto le gambe. Siamo esseri precari e fallaci, soffi di vento, invece ci dipingiamo come indistruttibili, invulnerabili, eterni. Pinter e questi attori ci mettono in difficoltà mettendoci in scena, con i nostri punti deboli, quelli che vorremmo sempre nascondere, le nostre vergogne.

Visto all'Arena del Sole, Bologna, il 25 novembre 2015.

Tommaso Chimenti 04/01/2015

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