“Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file” (Federico II di Prussia)
“In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli” (Erodoto)
“I pazzi non sono in grado di superare la visita di leva, ma sono capaci di fare una guerra” (Ninus Nestorovic)
Parlando di guerra si rischia sempre di scivolare sul noto, sul già detto e letto. Termini, situazioni, atmosfere hanno il sapore del deja vù. E non potrebbe essere altrimenti. Anno di commemorazioni e ricordi questo 2015 a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, una carneficina di innocenti mandati a morire in mezza Europa al grido di non si sa quale unità nazionale. Sul sangue sono fondati gli Stati e i confini, le frontiere e le dogane, i passaporti e le lingue. Anche in tempi di Schengen, oggi più che mai, siamo sempre più in “Trincea”, quel buco, quella lingua scavata nella roccia e nel muschio, nel fango e nella polvere, che è limite e rifugio, ma anche luogo senza via d'uscita, chiusi ad attendere la mossa dell'altro, là davanti a te, nella tua stessa situazione, militare e psicologica, ad aspettare un movimento fallace dell'altro, per scannarsi nel bel mezzo di un niente, di un campo brullo, di una brughiera che non si trova nemmeno sulle carte geografiche, a combattere un avversario che non sappiamo nemmeno il perché, un nemico uguale a noi.
In questa guerra dei pezzenti, in quest'onta lavata con il sangue di poveri cristi, siamo tutti soldati semplici, nel brivido che Marco Baliani (con Ascanio Celestini e Marco Paolini i top dell'oralità a teatro) riesce a trasferire, scarno, compresso, umiliato, svuotato, depredato, carne da macello, carne da cannone pronta per essere tritata, deglutita, digerita, evacuata, espulsa, fino al prossimo boccone. Lo chiamano “Milite ignoto” (il titolo di un altro recente spettacolo teatrale, di Mario Perrotta), che vuol dire tutto e niente, che spersonalizza e lo rende supremo e aulico, lontano, quasi da non vederne i contorni, il sangue e la sofferenza, che è stata piccola e sudicia, umana e schifata, senza dignità. Il soldato maciullato aveva nome e cognome, una casa, una famiglia, un campo da coltivare, sogni, ambizioni, un amore, figli. Tutto inglobato, cancellato, distrutto, dissoluto da quell'aggettivo “ignoto”, che racchiude sì tutti i soldati ma li rende pappa per i libri di storia, annullando le differenze, rendendo tutti uguali davanti alla morte, neanche meritevoli di un nome su una lapide, di un'incisione sulla tomba, di un'iscrizione.
Dietro Baliani si apre e si figura una scena fatta da proiezioni che ci consegnano foreste di pioppi dove è impossibile trovare riparo o fango in abbondanza o bombe lanciate a grappolo. Esce da una botola con la schiavitù e il dolore di ossa da troppo tempo costernate, movimenti negati, che sono libertà di pensiero e d'azione, schiacciati in angoli per cause morali alte e inaccessibili e incomprensibili. Siamo nel 1915 ma potremmo essere in Vietnam o nell'ex Jugoslavia (ricorda il sontuoso “No man's land”), potrebbe essere la Cecenia, il Ruanda o la Siria. La guerra è, ad ogni latitudine, geografica o temporale, fetore e pidocchi, topi e malattie, fame e sete in questo “tempo impantanato” dove non riesci più a ricordarti “com'era la vita di prima” tra bombardamenti e cecchini ed i bisogni fisiologici fatti addosso ai vivi come ai morti, l'acido di quest'Inferno in terra che non ha fine (come già “Namur” di Antonio Tarantino ha saputo meravigliosamente riportare).
Baliani (nella scorsa stagione protagonista di un altro meraviglioso testo antibellico “Johnny prese il fucile”, prima romanzo di Dalton Trumbo, poi diventato pellicola, in versione radiofonica) è tutti i soldati che scrivono le lettere a casa dove raccontano quello che vorrebbero sentirsi dire mamme e fidanzate (e qui cadiamo con tutte le scarpe nell'“Italiani cincali” sempre di Perrotta) dove si spiega che va tutto bene, che andrà tutto bene, che saranno presto di ritorno e soprattutto sani e salvi. Le parole onore, coraggio, patria, valore, sono svuotate di senso. “Sparagli Piero sparagli ora” sembra essere il grido, l'Urlo di Munch, il motto d'ordinanza per arrivare a domani in questo buco che non è salvezza ma è già bara e feretro. Sono fantocci e burattini e Pinocchi legati e manovrati dai fili invisibili dei militari e della politica che sul sangue costruisce nazioni e ingrossa banche in questa mattanza senza senso, in questa tonnara dove “nessun posto è al sicuro” e le preghiere si fondono alle bestemmie, i lamenti al pianto e tutto è inghiottito dalle bombe, dalle granate, dagli scoppi, dai pezzi di corpi espansi e spappolati, esplosi e implosi in uno schizzo continuo pollockiano, bruciati come tele di Burri, tagliati come quadri di Fontana.
Sullo sfondo la disperazione e l'impotenza che già il bel “Roccu u stortu” con Fulvio Cauteruccio seppe ben far emergere e rappresentare. Una guerra sgangherata e amatoriale, dilettantesca e artigianale come le nostre valigie chiuse con lo spago per attraversare l'America. “Gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e giocano le partite di calcio come fossero guerre”, obiettava con sarcasmo Winston Churchill. E' complicato raccontare la guerra ma è ancora necessario. Sempre più. E viene in mente il “Generale” di Francesco De Gregori. Così come, per un altro verso, lo splendido “Nella tana” da Kafka di Luigi Lo Cascio. Illuminante rimane il “Disertore” di Boris Vian: “…se servirà del sangue ad ogni costo, andate a dare il vostro se vi divertirà, e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi che possono spararmi, io armi non ne ho”. A(r)miamoci e pa(r)tite.
Visto al Festival “Orizzonti Verticali” di San Gimignano, Siena.
Foto: Marco Parollo
Tommaso Chimenti 08/12/2015