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“Le ferite del vento” non rimarginabili di un padre assente

ROMA – Il vento non sembra violento, il vento pare innocuo, dolce brezza che ristora, tra tutti gli agenti atmosferici sembra il più docile e controllabile. Eppure ci sono i tifoni e le trombe d'aria, la bora, eppure le scogliere sono erose da centinaia di anni di rivoli di vento che le hanno scalfite, scolpite, segnate come profonde righe sugli zigomi. Il vento, come costante, come goccia cinese, può far male, può ferire in profondità dove è difficile, se non impossibile, rimarginare il dolore. Ha aspetti psicoanalitici questo “Le ferite del vento” (1h 20', dell'autore madrileno Juan Carlos Rubio; prod. Società per Attori, Teatro Civico La Spezia; visto alla Sala Umberto di Roma) portato in Italia dalla regia fervida e intelligente di Alessio Pizzech: due uomini che si affrontano e scontrano e confrontano (fino a confortarsi) con un terzo che aleggia misterioso e indecifrabile, un fantasma dai contorni labili e inconsistenti, un ectoplasma del quale rimane soltanto il ricordo anch'esso fugace, immateriale, incorporeo. Una morte li divide, una morte li unisce.Ferite-del-vento.jpg

Dopo la scomparsa del padre anaffettivo, frugando tra le carte del padre, Raffaele, per sistemare gli aspetti burocratici dell'eredità, il figlio, Davide (Matteo Taranto riesce bene a destreggiarsi dentro l'inquietudine, la forza che si fa debolezza per poi ritrovarsi nudo davanti al bisogno d'aiuto, possente e fragile) scopre delle lettere, lettere d'amore, lettere spedite da un altro uomo proprio al genitore. L'idea granitica e solida del padre tutto d'un pezzo, che non amava nemmeno sua moglie, si sgretola in un attimo, va in frantumi come uno specchio colpito con violenza. E' questo padre mancante e assente (lo fotografa benissimo e in maniera lapidaria la canzone di MinaBugiardo e incosciente”), come lo è stato peraltro anche in vita, l'anello di congiunzione tra i due uomini, un uomo incapace d'amare, di provare sentimenti o quantomeno di riuscire ad esternarli, dimostrare gesti d'affetto, una carezza, una parola, un abbraccio, un bacio, una tenerezza, soltanto freddezza e gelo. Le lettere le ha spedite appunto un altro uomo, Giovanni, un Cochi Ponzoni duttile e versatile, lucidissimo interprete, riesce a coniugare l'amore in svariate riflessioni, un piacere vederlo così in forma. Questo padre (se Davide è il figlio, lui è sicuramente un Golia o un colosso dai piedi d'argilla) ha condannato entrambi in vita a ricercare la sua approvazione e stima senza essere minimamente ricambiati, ed entrambi Cochi ponzoni 1.jpegsono rimasti ancorati all'idea che quest'uomo potesse cambiare, potesse un giorno voler bene loro, aprirsi, farli sentire ben accetti, benvoluti, amati nel senso più ampio del termine.

L'atmosfera trasognante (in questa versione nostrana importantissime le musiche di Paolo Coletta e le luci di Michele Lavagna) ha un riverbero nascosto che ci porta ad un mix sensoriale tra “Tutto su mia madre” quando la telecamera si alza dal campo di prostitute e inquadra Barcellona (“Tajabone”), e “Un tè nel deserto” (Ryuichi Sakamoto) quando John Malkovich corre tra le dune per raggiungere l'oasi. Fuggire da qualcuno e andare disperatamente alla sua ricerca forsennata come nodo da sciogliere, come percorso da camminare, come assioma da spiegare. La scena (orchestrata e architettata da Alessandro Chiti) prevede due grandi parallelepipedi, uno verticale l'altro orizzontale (entrambi rigidi, fermi nelle proprie posizioni e convinzioni) che si iLe-ferite-del-vento.jpgntersecano creando un incavo, un insieme, un rettangolo frutto dell'unione dei due, dell'osmosi e dell'incastonarsi, con i due interni borghesi delle abitazioni, del padre e del presunto amante, comunicanti e drappeggiati da teli leggeri di plastica quasi a sottolineare l'aria da obitorio e autopsia delle emozioni e delle passioni. Un uomo misterioso, il padre, che non si è fatto conoscere e che, involontariamente, ha unito questi altri due uomini, prima in conflitto e competizione, adesso vicini, ognuno alla ricerca di quello che l'uomo deceduto non aveva mai concesso loro.

Dentro il baratro della scomparsa i due si salvano a vicenda (trovando un figlio? trovando un padre?) sublimando un amore, esorcizzandolo; prima si erano visti rovinare la vita dalla sua insensibilità e adesso, con la sua mancanza, stavolta fisica e reale e tangibile e materiale, hanno ritrovato un centro, hanno rimesso in ordine gli appunti sparsi (c'è un coup de theatre fondamentale che tutto ribalta), hanno dato un senso ad esistenze tenute in sospeso, appese ad un filo, ossessivi e tentennanti e adoranti come pulcini tremolanti con il becco aperto in agognante ansia del nutrimento dei genitori. Un padre, immensamente amato e profondamente odiato, che con i suoi silenzi li ha perseguitati in vita, che ha minato le certezze del figlio e dell'amante (inteso come colui che lo amava, non ricambiato), che li ha resi duri e disillusi, dubbiosi, incerti, paurosi e soprattutto soli. Un testo che ci parla di dipendenza, di responsabilità, di identità, di genitorialità, di perdono.

Tommaso Chimenti 19/03/2023

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