BOLOGNA – E' complicato e allo stesso tempo semplice spiegare la genesi di “Lazarus”, una sorta di operetta rock-musical che David Bowie aveva in testa da cinquant'anni e che realizzerà proprio nel momento della sua scomparsa (con Enda Walsh) sovrapponendo il protagonista alla sua vita in un viaggio esistenziale, carico di pathos e inevitabilmente di musica. Dal romanzo di Walter Tevis “L'uomo che cadde sulla terra” del '63 passando per la pellicola del '76 con Bowie protagonista si arriva ad oggi a questo grande circo-carrozzone, fatto di danza, musica dal vivo, video e interpretazione, che, dopo la versione inglese e quella tedesca, Valter Malosti ha portato in Italia (con idee registiche tutte proprie e personali) affidando il ruolo centrale al frontman degli Afterhours Manuel Agnelli. E questo “Lazarus” (prod. Emilia Romagna Teatro ERT; Teatro Stabile Torino; Teatro di Napoli; Teatro di Roma; LAC) sarà ricordato come un vero e proprio teatro europeo che esce dalle categorie e dalle etichette (Eugenio Barba è uscito dal teatro entusiasta), un prodotto pop totale, denso e pieno, che non disdegna l'operazione commerciale, ma che ha in sé una grande anima, un sentimento, quei brividi dati dall'estrema cura innescata sul palcoscenico con sette musicisti e attori e Michela Lucenti alle coreografie e Casadilego al canto (sono diciotto in tutto): un progetto che rimarrà negli annali per la completezza, la compiutezza, l'afflato, l'omogeneità, la pasta, il magma, la tesi e la sintesi di un ragionamento d'ambientazione cupa, disincantata, cinica e dolorosa.
Lazzaro è quel personaggio dei Vangeli che Gesù resuscitò. Quindi Lazzaro non muore perché non può morire ed è questa la sua “condanna”. Come il personaggio che sta sotto la pelle di Agnelli incastonato in una vita che non è più tale, imprigionato in una esistenza senza gioia dalla quale non può fuggire. Inarrestabile Manuel Agnelli, teatrale anche nelle sue performance live, a suo agio anche in questa nuova veste: ha l'allure elegante del guru, ha il calore del Maestro, emana e spande il carisma di un King, è il Capo dei Capi; è Mosè che apre le acque con il suo bastone, nella sua vestaglia è un pugile spavaldo che sta per salire sul ring, è un demone sfacciato, è un Dracula arrogante e sconfitto allo stesso tempo, è il Prometeo Incatenato, potrebbe essere il Dottor Scott del “Rocky Horror Picture Show”, è un vampiro decadente, perdente e perduto, è il Don Giovanni disfatto e grottesco, è il Capitano Achab che ha finalmente capito che la balena bianca è dentro di lui, è un animale da palcoscenico che esprime potenza, energia e felinità soave, è Bruce Wayne misantropo prima della trasformazione in Batman, è un cardinale di un rito dionisiaco e baccanale, è Nosferatu, è il Mackie Messer brechtiano ma più sofferente, consapevole e malinconico, è un Mefistofele ormai debole e stanco, malato e barricato, schiacciato, annichilito, atterrito, abbattuto, finalmente empatico. E' Amleto che ci dice: “Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e tuttavia ritenermi Re di uno spazio infinito”, potrebbe ricordare il Gustav von Aschenbach di “Morte a Venezia”.
Il suo personaggio si chiama Newton il che ci porta nel mondo della scienza (l'immagine con la flebo non può non farci pensare alla malattia di Bowie e alla sua fase finale), attorno a lui gravitano tre Fate Turchine, una sorta di Einstein, un quasi Andy Warhol, una geisha: bisogna lasciarsi trasportare dal flusso. Il tutto (quasi due ore godibilissime ed eccitanti; le traduzioni delle canzoni di Bowie hanno una magia immarcescibile) è una divagazione sulla nostra vita, sull'energia che abbiamo a disposizione e che molti tengono oscurata e celata, che non mettono in circolo rimanendo ripiegati nelle pieghe e nelle rughe delle futilità, sul limbo nel quale siamo impantanati, bloccati a terra, meschini e miserevoli. Una pièce che ci parla dell'ignoto e del coraggio che è necessario per vivere e per resistere al buio, l'affrontare le nostre paure senza cedere alle scorciatoie o cadere nella facile indifferenza verso l'intorno che ci circonda. E poi ascoltare dal vivo, con questo carico di umanità tormentata, angosciata e misteriosa, “The man who sold the world” o “Changes”, “Absolute Beginners”, “Life on Mars?” e “Heroes”, come si dice in questi casi, vale il prezzo del biglietto, e ci ha fatto ricordare perché viviamo, per quel guizzo di emozione, “per quello che non c'è” come ci hanno insegnato gli Afterhours.
“Lazarus” si mischia inevitabilmente alla vita di David Bowie (che in copertina ci guarda sornione e ci intima gentilmente il silenzio) ma, se ascoltiamo bene, ci racconta molto anche delle nostre. Bowie, ma lo potremmo applicare a qualsiasi vita passata su queste Terra, si sarebbe trovato d'accordo con l'iconica frase d'addio di Cesare Pavese: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”. Un'esperienza assoluta, debordante, che ci ha toccato i cinque sensi. Anche il sesto.
Tommaso Chimenti 27/04/2023