“L’equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante” (Bertrand Russel)
“Siate affamati, siate folli” (Steve Jobs)
“L’individuo equilibrato è un pazzo” (Charles Bukowski)
Lo abbiamo criticato in tutte le salse, da anni, ma Gabriele Lavia, seppur nelle sue regie composite annichilisca testo, scene e gli altri comprimari “uccidendo” chiunque osi girare attorno alla sua figura eccentrica e accentratrice sul palco, nella versione monologante riesce ancora a dare il meglio di sé con una forza, una visceralità, un'attorialità fuori dal comune. Un uomo di settantatré anni capace di un'ora e mezzo di monologo tiratissimo, superbo, di continue cadute in forma fetale, di strisciare stile marine sul campo di battaglia di una lingua di luce, di contorcersi con potenza dirompente tra le braccia bianche della sua camicia contenitiva manicomiale. Encomiabile. Ed infatti, il pubblico (per l'occasione il Teatro della Pergola aveva tolto il primo settore di file della platea; tre ordini di palchi e piccionaia rimasti vuoti), da sempre innamorato di questa sua generosità, gli ricambia una mini standing ovation.
Il grande palco della Pergola, casa sua, coperto di terra e terriccio (sembrava la scena iniziale del fenomenale “Hamlet” di Ostermeier), allungato, diventa terreno di guerriglia, largo e lungo, orto arido, podere sterile. Da solo, bianche le vesti e le carni, non sparisce in mezzo a quello spazio che avrebbe risucchiato e smontato molti attori delle giovani generazioni (come sparì Elio Germano nel suo “Tom Pain”). Invece Lavia, martellante, atletico, prestante, ingloba e non si fa fagocitare, lo direziona, lo modella, lo fa suo, lo sposta, lo declama, lo declina, lo incarna, lo aggiusta, lo plasma. Sua è la materia, suo il carisma, sua la voce che trionfa. Certo la recitazione è monocorde, come uscendo rimarcano in molti, melodrammatica e sempre sottolineantemente enfatica per un testo, questo “Sogno di un uomo ridicolo” (cavallo di battaglia del “consulente” del teatro massimo fiorentino, inserito nel cartellone in sostituzione della produzione brechtiana “Vita di Galileo” postposta ad inizio stagione prossima), datato 1876, circolare, a vortice dentro le maglie della coscienza corrotta umana.
La drammaturgia, da Dostoevskij, vive di scuri e penombre, e di un'armonia oscillatoria, dove ad ogni crescita di pathos ne consegue, quasi fosse una formula matematica di parabole ascensionali, una fase di caduta per poi riprendere slancio. Potrebbe essere “Diario di un pazzo” di Gogol o “La serata a Colono” con Carlo Cecchi. Bella, originale per Firenze, l'idea della Pergola, di programmare tre piece, questa, “La prossima stagione” di Michele Santeramo e “La famiglia Campione” de Gli Omini, in questo maggio con inizio alle 18.45, in stile Milano e nord Europa. Piccole novità, scarti da cogliere. Ci accoglie il meraviglioso sipario storico, sempre tenuto incelofanato, arrotolato e chiuso, dipinto da Gasparo Martellini nel 1826.
Un uomo chiuso dentro se stesso racconta il suo percorso, senza salvezza, un gioco dell'oca dove si torna sempre all'inizio, un contrappasso continuo, come il fegato di Prometeo divorato dall'aquila. Ridicolo è quest'uomo che è l'umanità intera, ridicola perché non riesce a capire, perché si lorda nelle piccolezze dell'esistenza, perché si fa la guerra per un tozzo di pane, perché è cieca di fronte al tempo, è minuta nei confronti dell'Universo e invece pensa di poter controllare e decidere su tutto. L'uomo è piccolo, infinitesimale, come un granello di sabbia, destinato a scomparire, a non lasciare traccia di sé, ma nonostante questo si agita, distrugge, infligge, a sé e agli altri intorno, sofferenze e crimini e vendette. Ma “L'uomo ridicolo” è anche una riflessione sull'uomo moderno, meschino, bugiardo, millantatore, attraverso la sua finitezza, nel viaggio attraverso la morte, nel passaggio paradisiaco che dovrebbe levare e lavare gli scempi terreni, ripulire l'anima, svuotare di fango, rendere nuovamente candidi e vergini. Ma l'uomo, per sua stessa e intima natura, è immorale e perverso, e, come mela marcia, intacca e fa sfiorire ciò che gli è attorno, come un Re Mida al contrario, rende immondo ciò che tocca.
Lavia (riesce nella difficile impresa di non far tossire alcuno in platea) è stretto e costretto, contenuto e imbrigliato in queste maniche legate dietro la sua schiena, la statua di una bambina (ricorda, per via del copricapo rosso, la bimba di Schindler's List) al lato del palco (evitabile questo finto realismo nel luogo dell'immaginifico per eccellenza, il teatro) che è l'innocenza e la purezza, e l'alter ego del nostro “uomo ridicolo”, in total black: questa la triade e la triangolazione in quest'arena da corrida che ad ogni passo s'alza la polvere di stelle che dal Cosmo si sparge indifferente sulla Terra e sui suoi abitanti. Monologo rabbioso e di tenerezza sull'impossibilità umana di saper cogliere le bellezze della pace e della tranquillità, sulla follia lucida dell'uomo che lo porterà alla sua distruzione ed eliminazione. Nel limbo post mortem, nel tragitto a ritroso dentro il cordone ombelicale della vita stessa, alle origini della sua essenza, nel contrappasso a ricercare i varchi della solitudine balbettante, quest'uomo senza etica, degno soltanto d'odio e disamore, riesce ad infettare come virus purulento anche il Paradiso, felice e ingenuo, per poi essere nuovamente sputato nel mondo dei suoi simili cattivi e ingiusti. Non c'è redenzione e la reincarnazione rimane soltanto quella che in psicologia definiscono “coazione a ripetere”.
Visto a Firenze, Teatro della Pergola
Tommaso Chimenti 28/11/2015
"Il sogno di un uomo ridicolo" sarà in scena al Teatro Era (Pontedera) il 5 e il 6 dicembre
Foto di Filippo Milani