BOLOGNA – Sembra uno spettacolo progettato ad hoc per il post pandemia questo nuovo “Il Labirinto” a cura del Teatro dell'Argine. Il distanziamento è assoluto e radicale, siamo soli in una grande stanza, anzi un'aula di una scuola bolognese (Istituto Aldini Valeriani; in un'altra ala si stanno svolgendo gli esami di maturità), la visione è singolare, autonoma e solitaria. Invece questa discesa agli Inferi (potremmo trovare anche un parallelismo con quest'annata dedicata a Dante, scendendo tra i gironi dell'Umanità) era stata concepita nel 2019 e poi saltata e rimandata causa Covid. E' un reale viaggio dentro una vera e propria Via Crucis con le sue quattordici stazioni, quattordici come i giovani, sette ragazze e sette ragazzi, che venivano annualmente dati in pasto al Minotauro, lo stesso numero di storie, reali, estrapolate da interviste per portare a galla situazioni di penombra, degrado, margine, discrimine, disagio, violenza, periferia, miseria, abbandono. Un viaggio (trip in inglese rende meglio l'idea con la sua accezione psichedelica) dentro antri e budelli, angoli nascosti e curve cieche dell'anima, buchi neri, anfratti maleodoranti.
Con i visori sugli occhi ci si manifesta un mondo altro fatto di corridoi e cunicoli, di mattoni rossi e cancelli e storie tutte da seguire con il fiato sospeso, il groppo in gola, l'ansia crescente per un'ora di pura concentrazione, ai dettagli, alle parole, alle storie drammatiche e pesanti che non possono lasciare indifferenti. Un viaggio che dà anche la nausea, il mal di mare, la labirintite appunto perché sposta l'asse di riferimento, fa barcollare il baricentro, scuote i sensi. Camminiamo dentro questi gangli cercando la via d'uscita come la salvezza ma non arriverà né la prima né tanto meno la seconda. Saremo sconfitti e senza armi, senza possibilità di riscatto e impotenti davanti a queste storie di ordinaria follia perpetrata dagli adulti ai danni dei più piccoli indifesi, dalla società verso le nuove generazioni, narrazioni di sfruttamento, di vessazione, di accanimento, di frustrazione. E noi, con i nostri occhialoni, vaghiamo da una stanza virtuale all'altra, con un peso sempre maggiore da portarci dentro e addosso, una soma, un carico difficile da digerire e gestire. Perché l'impianto è da videogioco ma le tematiche fanno rabbrividire. Storie vere (scritte da Giacomo Armaroli, Nicola Bonazzi, Mattia De Luca, Giulia Franzaresi, Silvia Lamboglia) e dirette sapientemente da Andrea Paolucci che ha composto un lungometraggio dentro il quale siamo pedine naufraghe dentro gli incubi di ragazzi che hanno perso forzatamente l'innocenza, senza più sogni, che sono diventati cinici, che si sono creati per difesa una scorza per proteggersi dalle intemperie dell'esistenza.
Il Minotauro, che esso siano gli adulti o la società del consumo, ha sempre bisogno di infornate di carne fresca, e perdersi è facilissimo tra mondi paralleli e realtà offuscate, il dio denaro e questa voglia di crescere che tira da una parte e dall'altra la paura e il terrore del diventare grandi. Appena entriamo ci appare, tra stupore meraviglia e ansia, una bambina in una visione che ci porta dritti a “Shining”; la seguiamo, ci scorta, ci conduce, ci fa strada dietro angoli, ci fa salire in questa ascensore per l'Inferno (“Angel Heart” di Alan Parker) dove, sempre virtualmente, veniamo molestati da un altro ospite, grande e grosso. E' il benvenuto, il welcome per farci capire dove siamo finiti e quale sarà il climax. L'agitazione sale. Ci muoviamo in questa aula (reale stavolta) seguiti e aiutati da una “maschera” ma per un'ora il nostro intorno è soltanto questo dedalo (per tornare al Mito di Creta) di viuzze e stradine tortuose che ci aprono epifanie che non vorremmo vedere né sentire. Questi ragazzi che appaiono ci fanno entrare nella loro quotidianità fatta di prostituzione minorile, di hikikomori che si chiudono nella propria stanza senza uscirne più, di autolesionismo, di baby gang che commettono reati che riusciranno a comprendere dopo molti anni, di madri che “vendono” le figlie, di bullismo prima subito e poi rimesso in atto in un cortocircuito che non ammette stop, di bambini migranti non accompagnati che si perdono tra burocrazie e numeri fino a scomparire dai radar, di serate alcoliche solo per sentirsi grandi o per annullarsi o soltanto per postare queste bravate sui social, di storie di depressione.
e3L'Argine dimostra ancora una volta la sua vocazione per il teatro civile e impegnato da una parte e dall'altra di grande apertura e vicinanza verso le nuove generazioni non tanto, come dice qualcuno, perché saranno il prossimo pubblico teatrale ma perché saranno i cittadini di domani, anche se non andranno mai all'ITC di San Lazzaro a sedersi in platea. Un'ora di immersione non in un mondo così lontano e distante, non negli Inferi, non in una realtà sotterranea; e in questo la scena finale è emblematica, palese e crudele, lampante e brutale: spesso siamo ciechi e sordi, indifferenti che guardano ma non vedono, per mancanza di empatia o proprio per difesa del nostro piccolo orto, davanti al disagio che ci circonda e facciamo finta di niente, e tiriamo avanti. Se consideriamo gli altri come numero o come folla indistinta non aspettiamoci amore, solidarietà, aiuto: siamo anche noi, ai loro occhi, una moltitudine indefinita che cammina, ci occlude la vista e che come arriva se ne andrà, senza lasciare traccia, senza nome, corpi da attraversare. Il Labirinto è dentro di noi e in esso ci perdiamo ogni volta che non tendiamo una mano a quel bambino che potevamo essere noi.
Una vera e propria esperienza invasiva che ci tocca (anche se non possiamo toccare niente essendo tutti gli oggetti che incontriamo fittizi e irreali), che ci tange dentro, ci scardina, ci sposta, che non ci fa stare né tranquilli né nella nostra comfort zone al riparo dal brutto, dal tragico, dal marcio. Qui ti devi mettere in gioco anche se è un gioco al massacro, un gioco dark, un gioco noir dove non riusciremo a “riveder le stelle” se questi ragazzi (come tanti altri là fuori) in loop continueranno ad essere usati e abusati, violentati e derisi, certamente tarpati, annullati, cancellati. Il Minotauro siamo noi, ognuno di noi che permette e avalla questi comportamenti e atteggiamenti, che si gira dall'altra parte, immersi nel menefreghismo, nel pressappochismo, nel mors tua vita mea. Al massimo ci scandalizziamo o ci possiamo indignare. Tutt'al più possiamo mettere un like, un pollice su o un cuore sotto ad un post che racconta barbarie e malvagità. E' il massimo che il Minotauro, per non farsi scoprire (nemmeno a se stesso) può fare. Intanto il gioco delle vergini deve andare avanti: ci vuole sempre nuovo carbone per pompare e alimentare la fornace del consumismo.
Tommaso Chimenti 18/06/2021