Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Lab121: questo “Inquilino” non rimane “Insonne”

MILANO – La “I” è una lettera dritta, intera, che traccia una retta certa, un segno forte, un taglio di Lucio Fontana, dal basso della polvere s'innalza alle vette delle nuvole, tende a Torre di Babele possente, s'inerpica su in alto, mira alle stelle, ha un corpo longilineo ma solido, è un segno prestante, concreto, tangibile, come un dito che indica la Luna o le comete in transito, un cammino verticale da Shuttle senza indugi. Come la lettera è immobile, salda e compatta nel suo essere slanciata, così i due termini, con la stessa iniziale, che compongono il dittico di Claudio Autelli, “L'Insonne” e “L'Inquilino” (entrambi a cura della compagnia Lab121), invece esprimono il lato opposto, quell'inquietudine, quel vacillare, quell'incertezza, quel caracollare che fa cadere le credenze precedenti, quel barcollare gelatinoso come un budino tremolante.
Se “L'Insonne” però, nel suo cubo velato era una macchina perfetta a orologeria dove i meccanismi scattavano precisi e all'unisono per far passare, nella penombra, dalla scena alla platea, una sensazione di precarietà allucinata e mistica, mantecata a sottile timore, in questo nuovo “L'Inquilino” (che ha potuto vedere la luce grazie ad un utile crowdfunding: 57 donatori hanno elargito un totale di 4.000 euro), dal romanzo di Topor passando per la pellicola di Polanski, non riesce nello stesso tentativo di naufragio e spaesamento ed il pathos che avvolge e prepara, che ammanta i movimenti nella creazione di una suspense ideale ai colpi di scena disseminati che affossano sempre più il protagonista nel suo castello e processo kafkiano, rimangono più nelle intenzioni concettuali che effettivamente nello sviluppo palese conclamato.
Il nostro Trelkowski diventa spauracchio di se stesso, vede ombre e nemici, sente voci, rievoca fantasmi in una trasformazione verso il baratro esistenziale, in un divenire inconsapevole (un transfert che ci riporta a quello, però conscio, di “Psycho”) che lo porta a impersonificarsi totalmente con la precedente inquilina dello stesso appartamento che aveva tentato il suicidio. L'abitazione è un labirinto mentale, metaforico e psicanalitico ma, sarà per l'estensione o l'ampiezza della scena, che finisce per evaporare ai lati e non stringere gli oggetti, il palco rialzato e la conseguente lontananza della platea dalla scena (evocativo però il letto con sbarre da carcere), non si entra a pieno nel climax che dovrebbe attanagliare le caviglie, mordere la catena, far tremare non tanto dall'orrore ma dalla possibilità dell'immedesimazione d'impotenza nei suoi panni disarmati.
Se il testo è visionario (Topor era “collega” di Jodorowsky), qui la furia (nonostante la conclamata bravura e tessitura che ci mette Michele Di Giacomo, giovane talentuoso che mai si perde nel fiume di parole traboccante che gli viene inflitto) che dovrebbe montare per incunearci nei meandri della vicenda e della follia, stenta a decollare, lasciandoci se non indifferenti quanto meno distanti, un po' voyeur separati, mai all'interno del processo di controllo, di indagine, di repressione psicologica che affligge claustrofobicamente il nostro grigio piccolo debole personaggio spodestato che si batte e dibatte contro forze oscure che egli crede fuori di sé ma che invece albergano sotto il suo sterno, sotto la sua corteccia cerebrale, dentro i suoi pensieri-incubi.
La segregazione forse è rimessa sul piatto con troppa veemenza e ne risente la sottigliezza, ci perde il brivido del coltello noir che dovrebbe incedere della materia, lo stiletto che nei patti dovrebbe pungere e ferire. Certo i dubbi, le strategie, le camere-celle, le minacce soffuse e diffuse, le voci, queste case già bare e sepolcri tentano di creare un'ambientazione ciclica, che piega nel fumettistico, che rammentano dedali intricati senza via d'uscita né di fuga, ma senza arrivare a un'epifania di panico con i molti finali predisposti (ne abbiamo contati tre-quattro) che fanno ripartire il countdown dell'emozione partecipata, il conto alla rovescia liberatorio della trepidazione o del turbamento (il nostro punto di riferimento rimane sempre il precedente “L'Insonne”). Nessuna ansia ci prende, rimaniamo leggermente insoluti, non identificati nell'inquilino.

Visto al Teatro Litta, Milano, il 4 aprile 2016

Tommaso Chimenti 09/04/2016

Foto: Paolo Pileggi/Sara Gentile

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM