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Entrando dentro “La vita ferma”: recensione a tre voci dell’opera di Lucia Calamaro

Vivere è sempre un problema. Cosa c’è di più onesto che ammetterlo, nei testi, poi, immediatamente, attraverso le immagini della scena? Lucia Calamaro ci fa sentire “il vuoto, la perdita, lo strappo, il buco”.
Perdere qualcuno è innanzitutto scoprire un’assenza che abita in noi. È la conoscenza di una situazione esistenziale. I suoi, sono personaggi di estrema solitudine, da cui non ci si può salvare neppure con gli affetti e il ricordo. Una condizione così disperata che per paradosso si trasforma, a tratti, in una commedia commoventemente buffa, poiché l’eremo su cui gravitiamo insieme ai nostri sentimenti inaccessibili, ricorda quello di tutti gli altri. Ognuno nella propria “nicchia di esistenza”, non dialoga, piuttosto scambia monologhi con i vicini. Le solitudini si riconoscono, ridono e piangono insieme. Così i testi di Calamaro agiscono sugli spettatori, un mucchio di tante individualità. Rompono la barriera, non parlano di teorie ma di cose minime e pratiche di vita, si fanno “sentire”. “Sentire” per capire, perché questa è l’utilità del pathos. Accenni di sentimentalismo al di là delle trappole della sola ragione, il logos. Pathos e Logos come rappresentazione della condizione umana. È un teatro che insegna, con grazia, come sia possibile essere “leggeri per profondità”.

Abbiamo provato a scomporre il nostro pensiero su “La vita ferma” in tre passaggi, tre momenti, tre sguardi, un po’ per gioco, un po’ per esorcizzare il “peso”, la profondità che questa visione ci ha lasciato e restare leggeri “come una rondine e non come una piuma”.

Lucia Calamaro: la vita è “ferma”, il teatro no

Chi pensa che un teatro impegnato abbia bisogno di una drammaturgia carica, di una scrittura complessa e un incedere spesso rallentato vada a vedere l'ultimo spettacolo di Lucia Calamaro al Teatro India. “La vita ferma, sguardi sul lavitaferma5dolore del ricordo” è saturo di parole, tratta temi delicati come l'elaborazione del lutto ed è composto da ben tre atti per un totale di 145 minuti. Eppure, quando lo si guarda, il tempo sembra volare.
Il tono quasi naturale e leggero allontana lo spettacolo dal patetismo e ci porta in un mondo che assomiglia al nostro ma che non lo è mai del tutto. Un mondo fatto di ironia e di tanti colori che ti colgono di sorpresa. Un mondo in cui un vedovo parla con lo spettro della moglie come se nulla fosse, salvo poi fermarsi sul terrazzo di casa e scoprire di trovarsi nel mezzo: né dentro, né fuori; né sopra, né sotto.
La storia di una famiglia come tante è ritratta in tre parentesi ben distinte. A fare da legame il senso di colpa per la constatazione dell'impossibilità di una memoria autentica del defunto. Perché il tempo passa e il ricordo diventa idealizzazione. Diventa una serie di aggettivi, sempre gli stessi, messi in fila uno dietro l'altro, mentre una persona è fatta di dettagli, di piccoli gesti e di voce, di pelle e di muscoli.
Il messaggio che la Calamaro fa elegantemente filtrare e che il pubblico coglie indistintamente è chiaro, malinconico e si può riassumere con una semplice domanda: quando morirai chi si ricorderà delle tue ginocchia?

(Carlo D’Acquisto)

La Vita Ferma: l’insostenibile fugacità del ricordo

Come possono semplici ricordi tenere in vita qualcuno che non c’è più? In che modo i cari defunti - o le sbiadite immagini che ci siamo fatti di essi - continuano ad esistere in noi, riesumando un passato altrimenti irrecuperabile? Sono questi i temi de “La Vita Ferma: sguardi sul dolore del ricordo”, scritto e diretto da Lucia Calamaro, in scena al Teatro India di Roma fino al 14 maggio. La pièce, definita un dramma di pensiero in tre atti, narra la storia di una famiglia come tante costretta a confrontarsi prematuramente con il dolore della perdita e l’elaborazione del lutto. La scena si apre con un trasloco: in una casa ormai vuota lavitaferma4Riccardo, un mite storico amante di Paul Ricoeur, è intento a riporre in enormi scatoloni di cartone gli oggetti di una vita passata insieme alla moglie Simona, eccentrica danzatrice con la passione per gli abiti floreali, da poco uccisa da una grave malattia. Il secondo atto ripercorre in flashback la discesa agli inferi che sconvolge la serena tranquillità famigliare: la scoperta della malattia, la consapevolezza della morte imminente, la rabbia, il rifiuto e infine l’accettazione, culminata con la paziente scelta dell’abito per la sepoltura davanti agli occhi della figlia. Impotente, la piccola Alice, appena undicenne, fissa per l’ultima volta il volto della madre, svanita troppo presto per poter conservarne la memoria e tramandarla ai propri figli.
Il punto di forza di “La Vita Ferma” è il testo stesso che dà voce e forma ai tre personaggi con profondità letteraria - in grado di passare dalla tragedia all’ironia con la naturalezza della vita quotidiana - anche grazie alle interpretazioni di Riccardo Goretti, Alice Redini e Simona Senzacqua. Nella scenografia essenziale, negli oggetti e negli abiti di scena ogni cosa è densa di significato: le barricate di scatoloni bianchi, le biglie, i farmaci e le mentine sparse per terra, la fila di sedie nella sala d’attesa del medico e le variopinte sagome di spettri nel silenzio funebre del Verano. L’opera di Lucia Calamaro, in parte autobiografica, non è solo un commovente racconto del dramma umano; è soprattutto un inno al valore dell’esistenza come irripetibile sequenza di attimi speciali, come il primo incontro con la persona amata o l’ultima sigaretta fumata sul terrazzo. Nell’inesorabile scorrere del tempo, forse, questi momenti resteranno un po’ più degli altri. Anche se, in fondo, si tratta solo di ricordi.

(Michele Alinovi)

“La vita ferma”, o l’inevitabile oblio dell’indimenticabile

C’è quella che pensiamo essere la nostra memoria, e poi c’è la memoria effettiva. C’è il desiderio di perenne ricordo che riponiamo – soprattutto - nei nostri cari, e c’è l’oblio. Non necessario, talvolta persino non cercato, ma imposto, dalla natura, dalla vita. Perché se “la morte è naturale per i morti”, dimenticare lo è per i vivi.
“La vita ferma” di Lucia Calamaro è un dramma in tre atti sul ricordo, prima talmente intenso da essere vivo e poterci parlare, poi nostalgico, colpevolizzante ed esaminatore, e infine rarefatto e idealizzante.
L’ironia è la chiave che l’autrice e regista utilizza per raccontare un estremo dramma, un’ironia che però non elimina - e anzi aumenta - la drammaticità. Da questo punto di vista l’emergere del pathos non è solo un risultato, ma anche e soprattutto una scelta mirata di Calamaro, perfettamente consapevole di quanto nel racconto sia presente una “riabilitazione più o meno dichiarata” di esso, e “non più d’accordo” col dover rappresentare temi di una “gravità impossibile” con un “approccio senza pathos”.
Certo, il lirismo è materiale di difficilissima trattabilità, e basta poco per farlo esplodere. Ci è andata vicina, Calamaro, alla fine del secondo atto, quando il pianto di Alice (Alice Redini) si è avvicinato al lamento e il tono particolare sembrava stonare con quello generale. La bomba, però, è stata abilmente disinnescata nel terzo atto, tornato di nuovo effervescente, seppur forse ancora più drammatico dei precedenti.lavitaferma6
Il primo atto è folgorante e getta immediatamente le basi per un’empatia con i protagonisti che durerà fino alla fine: lui goffo e farneticante, lei stronza e magnetica, morta ma umanissima, viva perché terrorizzata dall’ essere dimenticata. La paura di Simona (Simona Senzacqua) è in realtà quella di Riccardo (Riccardo Goretti), è quella di ogni “sopravvissuto”, di chi è terrorizzato dall’insopportabile idea di dover dimenticare, di chi già si sente in colpa perché sa di non poter sottrarre la sua mente al buio a cui va incontro. Alice (Alice Redini), loro figlia, è una bambina sensibile, che mette su carta i mostri che intravede nei genitori, in quella coppia unica come tutti, come tutti piena di stranezze e per questo normalissima.
Lucia Calamaro ha curato anche le scenografie, e infatti il rapporto tra quello che si sente e quello che si vede è strettissimo: lo spazio esterno è la rappresentazione dello spazio interno dei personaggi. Ci sono degli scatoloni già pieni e altri che per forza di cose verranno riempiti. C’è una casa da abbandonare, rappresentazione stessa del dolore e del ricordo, dove il fantasma di quello che è stato non è solo mentale ma fisico, da vedere, da toccare, sentendo il freddo del suo corpo. In ogni atto, poi, gli oggetti in scena sono degli strumenti nelle mani dei protagonisti che plasmano, fanno e smontano la scenografia in corso d’opera (iconico, da questo punto di vista, il passaggio del planetario, all’interno del quale Riccardo e Simona creano l’infinità delle stelle sotto ai loro piedi).
Uno spettacolo che “scivola” ma si imprime, che vola ma s’impregna, leggero e spietato, grazie a una drammaturgia efficace e densa e a un trio di attori eccellenti, in equilibrio costante. Rimaniamo stupiti nel rendersi conto che, guardando Riccardo, Simona e Alice, si è sempre certi di vedere un padre, una moglie e una figlia, e non la messa in scena di una famiglia; di realistico, nella narrazione, ci sono solo i sentimenti esposti, la rappresentazione procede con salti temporali di anni e morti che parlano, eppure tutto è sempre così vero, vicino.
“La vita ferma” è un’opera che regala emozioni immediate e che ne riserva altre nei giorni successivi, un discoro sul ricordo difficile da dimenticare.

(Alessio Altieri)

L’introduzione è di Agnese Comelli, come l’intervista a Lucia Calamaro, che potete leggere qui: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/la-vita-ferma-lucia-calamaro.html

Intervista a Riccardo Goretti: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/la-vita-ferma-recensito-incontra-attore-riccardo-goretti.html
Intervista a Simona Senzacqua: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/la-vita-ferma-simona-senzacqua.html
Intervista a Alice Redini: https://www.recensito.net/rubriche/interviste/la-vita-ferma-alice-redini.html

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