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Ariele Vincenti è "Trilussa": stornelli e umanità da osteria

ROMA – Non è un teatro agiografico, anche se è inevitabile l'esaltazione del personaggio, quanto un teatro didascalico che, di questi tempi così magri e bui, male non fa certamente. Un docu-theatre che va tanto di moda oggi, una ricostruzione non progressiva ma sentimentale, come aprire un libro ricco di storie e sciorinare versi e poesie e fatti ed eventi per ricostruire, come una ricca ragnatela un affresco di cuore e pancia, sentito, vissuto, respirato. Già perché la vita avventurosa di Trilussa, anagramma del cognome Salustri vergato sui libroni dell'anagrafe, fa parte di quell'immaginario fumoso e decò che, romani di nascita o studenti di tutta Italia, pensiamo di conoscere e che invece, scavando, ci accorgiamo di sapere soltanto una piccola parte, una irrisoria percentuale degli accadimenti stratificati di una vita eccezionale, di un orfano che, con il proprio talento, arguzia e arte, era riuscito a farcela, ad uscire dall'anonimato, ad emergere, a sfuggire alla fame e alla miseria6f1da9edcbe586fd60eb7aff6ec7daf7_XL.jpg
vivendo sopra le righe, oltre le proprie reali possibilità. Partiamo dal titolo: “La tovaglia di Trilussa” (prod. La Bilancia, visto al Teatro Vittoria) che immediatamente ci porta dentro quell'affascinante e pericoloso, per certi versi, mondo di trattorie e osterie dove il vino dei Castelli non mancava mai e anche i soldi scarseggiavano. Il poeta, che ai suoi tempi era il nuovo che avanza, incarnando il contemporaneo se visto in relazione con il cantore del Belli, sempre a corto di denari (anche quando fu tradotto in Germania come in Argentina) negli ultimi anni della sua vita pagava con un pezzo di carta gialla, che serviva da telo sopra il tavolaccio, scrivendoci sopra qualche rima delle sue, pungenti, acri, salaci, soprattutto vere fotografie scanzonate del reale. Come faceva Antonio Ligabue, nella Bassa Padana, disegnando al ristorante per una ciotola calda di minestra. Il testo, ben condotto tra la commozione e la giusta informazione, sanguigno e intellettuale, scritto da Manfredi Rutelli e Ariele Vincenti (entrambi innamorati di Roma e della romanità), è un viaggio dentro quelle atmosfere a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, un piccolo mondo antico che ci fa sorridere in quel bianco e nero d'antan, di cappelli, carrozze, panciotti e salotti, un'umanità comunque feroce dove le disparità erano lampanti e accettate e dove era la fame la prima occupazione giornaliera ad interessare la gente. Un universo che però, pur in mezzo alle ristrettezze e a due guerre mondiali, aveva prodotto alle nostre latitudini, e in particolare a Roma (nel '36 era nata anche Cinecittà), personaggi del calibro di Fregoli come di Petrolini. Un macrocosmo che si nutriva di povertà per generare arte. 

A IMG-20211014-WA0013.jpgdare voce a questa straordinaria esistenza ci pensa Ariele Vincenti che, nel suo recente passato artistico, ha dato vita alle “Marocchinate” di Simone Cristicchi sugli stupri da parte dei soldati magrebini affiancati agli Alleati a Liberazione avvenuta, oppure a “Ago, il capitano coraggioso” sulla vita del difensore della Roma campione d'Italia Agostino Di Bartolomei. Diciamo che Vincenti ci mette la faccia, ma anche le viscere e l'anima, si appassiona e, mosso da un fuoco e da una ricerca tutta rivolta a rivelare e rinsaldare una certa romanità (anche se mai potremmo definirlo attore “territoriale” ma un “attore di radici”) che si sta sbiadendo, cerca ed ha bisogno di temi forti che lo coinvolgano, lo prendano, lo strappino, lo immergano completamente, lo avvolgano. E così è successo anche con Trilussa (esperimento similare fu messo in scena da Dario Ballantini con Petrolini) dove Vincenti riesce a tirare fuori tutta la sua carica da performer di razza, fumettistico e funambolico, guascone istrionico e guitto esplosivo, caterpillar di parole, mai sopra le righe sempre misurato tra poesia e canzone, stornelli e battute, barzellette e aneddoti toccanti, il tutto centrifugato in un amalgama che fa bene alle orecchie e al respiro. L'escamotage drammaturgico ideato dal duo Rutelli-Vincenti (affiancati dalla consulenza registica di Nicola Pistoia) è stato quello di inserire nella narrazione il personaggio di Remo, figura inventata che però ci restituisce quel calore e vicinanza che altrimenti non avremmo sentito nell'evolversi e nella successione degli accadimenti.

Un racconto che tocca Sciascia a De Filippo, Pirandello e appunto Fregoli e Petrolini fino, incredibilmente a Sandro Ciotti, un raccoIMG-20211014-WA0015.jpgnto spumeggiante e frizzante accompagnato dalle musiche del Maestro Pino Cangialosi a sottolineare (assieme alla scena raffinata di Sandro Giombini), un racconto di satira ma estremamente popolare nella sua accezione più alta, sincera e schietta. Vincenti riesce a tratteggiare, con i colori spontanei e con una mano leggera, la vita eccezionale e stra-ordinaria di Trilussa ricercato da creditori, vigili e strozzini, cercato da mille donne, e dandy e bohemien elegante che si additava le antipatie in egual misura del Vaticano come del Regime Fascista, tra amori e alcool, tra le sue poesie che erano favole e parabole e metafore che sbugiardavano i potenti mettendoli in berlina, che illuminavano piccole grandi verità che consolavano il popolo. Ariele (amatissimo dalla platea), che in ebraico significa “Leone di Dio”, è davvero sicuro e campeggia e troneggia affabile sulla scena, riempiendola, curandola, annusandola, impastandola, facendola sua ogni sera con vigore e generosità, guardandoti negli occhi immergendoti nella sua verità e onestà. Attendiamo una sua ricostruzione anche, ad esempio, su Fregoli (o Sordi o Aldo Fabrizi) per capire da dove veniamo e verso quale buio stiamo velocemente progredendo ad ampie falcate.

“C'è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.

Tommaso Chimenti 24/10/2021

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