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La società della bolla culturale in Vania

La storia di Zio Vania è soggettiva, lo spioncino da cui si guarda il mondo è l'occhio di Vania. Aleksandr possiamo anche non ascoltarlo, perché non fa altro che incalzare il fratello e dargli un motivo per difendere i suoi valori, per parlare di sé, per ribellarsi al progresso e dimostrare la sua assenza di coraggio nel vivere, il suo timore nel cambiare.
La compagnia Oyes, con la regia di Stefano Cordella, ha presentato il 12 maggio scorso, al Festival Inventaria, il proprio “Vania”, il mondo di Cechov ai nostri tempi, dove Sergio, il professore, è in stato vegetativo e sopravvive perché attaccato a una macchina. Il dramma borghese viene mantenuto, siamo in un paesino di provincia del nord Italia dove riecheggia l'ambizione di cambiare, ma la vicenda non si evolve, ci sono molte parole ma poche azioni.
Ivan (che si avvicina all'anagramma di Vania) accudisce il fratello, si prende cura della cognata e cresce la sorella Sonja, come un padre. Ivan (Fabio Zulli) voleva fare due cose nella vita “giocare a calcio e vivere al mare” ma non riesce a vaniaconcludere niente. Nonostante il suo fallimento sia così evidente, è l'unico che sembra accettare il proprio destino, se non fosse per gli altri personaggi che lo stimolano costantemente a riprendere in mano la sua vita. Sonja che in quel posto non vuole vivere, che vuole andare a Londra prende lo zaino e parte, per poi ritornare. Il dottore Michail (Umberto Terruso) ha studiato, esercita il suo mestiere, ma la sera quando torna a casa non c'è nessuno che lo aspetta. Elena (Vanessa Korn) che ha inseguito l'amore ora si trova con un marito in coma e tanti dubbi a dire che “anche la felicità ha bisogno di carattere. Io sono solo un personaggio secondario”. L'amore è il motore che li anima, che li porta ad agire. Sonja (Francesca Gemma) si innamora del dottore, che è invaghito di Elena, come Vania. Tutti si inseguono, senza essere corrisposti e rimangono infine soli, per tornare al punto di partenza, ma con una nuova consapevolezza: la vita è così e bisogna viverla aiutandosi. “Aspettiamo che qualcosa arriva e se poi non arriva abbiamo tutto il diritto di urlare” dice Sonja a Vania “siamo come gli alberi” perché sono forti e fermi, immobili.
Lo spettacolo trova subito riscontro dal pubblico e ogni trovata è geniale. Sergio è collocato alla console, dove c'è una sacca azzurra illuminata da una lampadina posta all’interno. Lì vanno i personaggi per parlare con lui, lì va il dottore per somministrargli la morfina e controllare i suoi progressi. Si sente il suo respiro che scuote gli altri e gli ricorda cosa li tiene uniti sotto quel tetto. Gli attori diventano, in quell’occasione, anche tecnici, e a ogni spostamento verso il malato gestiscono anche il suono, la musica e le luci. La scena è composta da cinque zone diverse della casa, che appena illuminate fanno prendere vita all'azione. Il salotto con quattro sedie, una poltrona con una lampada, il letto del malato/mixer, la porta d'entrata e un piano cottura. Nessun personaggio esce di scena, li vediamo solo spostarsi nelle zone d'ombra come avviene nella Commedia dell'Arte: il fuori scena è a vista.
L'amore per il calcio di Vania, che gli fa fare dei paralleli tra giocatori e partite con la vita, il desiderio di Sonja di rifarsi una vita altrove, il sarcasmo di Elena e il suo tentativo di suicidio danno colore e sapore all'opera. Quando Sonja canta l’emozione diventa palpabile e ogni sentimento incanalato nei suoi codici è vivo, lo sentiamo e lo comprendiamo. Fino al monologo finale di Sonja (un'interpretazione ben riuscita della Gemma, che calza alla perfezione il soggetto) che afferma “la nostra generazione viene chiamata dei Nè né: non studiamo, né lavoriamo [...] come te papà, che non sei né vivo né morto”. Ecco lo spessore, l'intraprendenza e la qualità di Vania: essere riuscito a rispettare l'ironia e la critica sociale di Cechov, seppur tradendolo, rileggendolo, prolungando la sua opera nel tempo e nella riflessione socioculturale.

Federica Guzzon 18/05/2016

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