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La realtà e l’autenticità di "Orchidee" di Pippo Delbono in scena al Teatro Bellini di Napoli

Orchidee, di e con Pippo del Bono, è un rituale laico che sottrae dalla dimensione privata dell’autore il dolore per la perdita della madre.

Dall’ultima fila della platea Pippo Delbono, seduto dietro a una piccola scrivania, accompagna il pubblico come voce narrante dello spettacolo. Orchidee restituisce vita e realtà, a un teatro «diventato luogo polveroso, finto, morto», attraverso una narrazione che sembra priva di ogni struttura narrativa con un andamento discontinuo, dettato dal suo carattere estroverso e socievole, ereditato dalla madre, volto alla scoperta degli altri, purché non parlino di luoghi comuni. L’autenticità è ricercata attraverso un rapporto colloquiale con il pubblico, chiamato in causa, e con la confessione di un’esperienza personale: la morte della madre.

 Lo spettacolo è composto di micro narrazioni costruite attraverso la recitazione degli attori, filmati proiettati, potenziati dai testi tratti da Shakespeare, Cechov, Kerouac, letti dal narratore- autore, e le musiche di Enzo Avitabile, Pietro Mascagni e Deep Purple. C’è la necessità di colmare un vuoto, che non è solo quello della madre, ma è un vuoto esistenziale politico, spirituale e culturale. Come un refrain, la voce narrante prende corpo, illuminando il tragitto che lo conduce al palco esprimendo il bisogno di perdere la condizione di orfano, attraverso la vitalità della danza. 

La grande forza espressiva è sprigionata da quei veri e propri microcosmi che fanno parte della compagnia, persone, non personaggi come li ha definiti il regista: Gianluca Ballaré, Nelson Lariccia e il piccolo Bobò, che è accolto con grande calore dal pubblico. Ma sono le parole della mamma di Pippo Delbono, ripresa nei suoi ultimi giorni di vita a far scendere senza controllo le lacrime, che si arrestano nel momento in cui il dubbio sull’intenzionalità del regista, consapevole dell’emotività di una tale scena, prende il sopravvento. Tutto a un certo punto ha un sapore retorico che distoglie l’attenzione dalla rappresentazione, fin quando si volge lo sguardo verso la scrivania, dove Pippo Delbono con le movenze e la postura incurvata di un direttore d’orchestra dirige quasi in estasi i suoi attori e il pubblico stesso partecipe di questo rituale.

 

(Gerarda Pinto)

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