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"La Paranza dei Bambini": il napoletano muore se l'italiano gli toglie la cazzimma

FIRENZE – Per ragionare attorno alla versione teatrale de “La paranza dei bambini” non vorrei prescindere dal fatto che Napoli non è la cartolina del Vesuvio, la veduta di Spaccanapoli, il Presepe, i bassi, il caffè o la pizza, Eduardo o Maradona, questa è la cornice; Napoli, quella vera, è la sua gente, il suo popolo che la vive, la odia, la sente in un rapporto carnale, spasmodico, viscerale, unico forse per attaccamento (quasi fossero morsi o baci feroci, per tornare a Saviano), sentimento atavico, vicinanza, come se, la città (con i suoi odori e suoni) e le persone, fossero impastate della stessa miniaturaFoto-2.jpganima, dello stesso sangue e cemento. E allora, seguendo questo assioma, se togliamo, se epuriamo asetticamente, come fosse un'autopsia fredda, chirurgicamente, al linguaggio dei suoi personaggi/attori quella spontaneità, quella freschezza onomatopeica con un'operazione di “ripulitura” e di “italianizzazione” allora “La Paranza” perde il suo lato di strada, il fascino sporco ma anche la pasta, il groviglio, la cattiveria, il furore, la lava che tutto brucia e scotta e scioglie e infiamma. Perché il napoletano non puoi tradurlo, puoi anche non capirlo ma, se apri le porte della percezione (non solo l'udito) riesci a sentirlo sottopelle, riesci chiaramente a percepire che scorre, s'innalza come maroso, s'infrange, cerca sponde, non è mai accomodante, mai ruffiano anzi spigoloso, pungente, appuntito, che ferisce, che fa male.

paranza1.jpgAl napoletano, inteso come lingua (non è un dialetto), se non si è di Napoli, non si è mai pronti. Lo ascolti, ti lasci trasportare, cullare, fino allo schiaffo che ti riporta alla realtà, è crudo ed ha gli occhi svelti, anche se stanchi, è sempre attivo, cerca vie di fuga, ti sopravanza, ti sorprende, non ti dà tregua, ti fa sobbalzare, ti pungola, non ti lascia tranquillo, ti mozzica. Ma ritorniamo al trasferimento dalle pagine di Saviano al palcoscenico ad opera del Teatro Sanità con la regia del sempre ottimo Mario Gelardi: sorvolando sui tagli al romanzo, certo necessari ma che ci sono sembrati grossolani ed eccessivi, a teatro non si è riusciti a cogliere bene (sarà per l'aria da musical che pian piano si fa strada, tipo Grease) il sangue, il contesto, l'accanimento, la potenza non tanto delle armi (esibite) ma quanto quella della voglia d'affermazione, del riscatto, della rinascita sociale, del sopperire alle mancanze interiori e affettive con l'accesso alla “roba”.

Ed è proprio il linguaggio usato, l'italiano, che ha depauperato e depotenziato un manipolo di giovani attori gagliardi e volenterosi che così hanno viaggiato con il visibile freno a mano tirato, più attenti alla scansione perfetta della parola che al suo più intimo e recondito significato. Insomma, per dirla alla napoletana, alla “Paranza” teatrale (osannata ovunque, è bene ricordarlo) è mancata la cazzimma, quella cosa che non sai spiegare ma sai, se anche solo una volta l'hai vista o sentita, quell'aura maledetta e bordeline, quel misto di forza e bellezza, quell'attrazione-repulsione, quell'aureola (che di santo e salvifico non ha niente) che illumina chi ce l'ha e abbaglia chi gli sta di fronte. I complimenti vanno invece alla scena (di Armando Alovisi) costruita con impalcature (il precariato della vita di strada che se ti va bene ti fa finire a Poggioreale e se va male con i piedi in avanti) con due scivoli, quasi a formare una piramide o una scala sociale, per salire faticosamente, irta, e, al contrario, discendere veloci a terra.foto-3660.jpg

Ma ritorniamo alla lingua, a questo grande equivoco e al dubbio che si è aperto. Delle due l'una. O è l'Italia (al di fuori di Napoli) che vuole e cerca di “normalizzare” Napoli stessa chiudendola in cliché e folklore esotico, prendendone solo quello che, di volta in volta, gli interessa, ripulendola in modo asettico dalla sua vita (che ha regole e usanze proprie non scritte) che pulsa come fermenti lattici, che tenta di fermare e bloccare in una fotografia o in una definizione ciò che è imprendibile, inafferrabile, sempre sfuggente come uno sguardo. Oppure è proprio Napoli che, consapevole del fatto di non essere capita fino in fondo, ma di essere strumentalizzata o usata che, ad uso e consumo dei forestieri, crea questo strano mostro lessicale fatto di un italiano lindo con qualche inserto di parole gutturali, dandoci in pasto un posticcio, un essere friabile nato in laboratorio che si sfalda e cade non avendo radici né gambe solide.

2391436_1052_para.jpgEppure sono stato testimone che è possibile mettere in piedi uno spettacolo in lingua napoletana e che giri l'Italia, che sia comprensibile e nazionale: a questo proposito ricordo ancora il coraggio, il clamore, il frastuono, il clangore e la forza, primitiva, sudata, atavica, ancestrale, animale, vigorosa, muscolare, urlante, che sapeva di lacrime e urla ma anche di verità e sincerità, del monologo conclusivo di Mimmo Borrelli in “Sanghenapule” (ritorna ancora Roberto Saviano), talmente intenso (in un napoletano strettissimo) da rimbombare come grancassa sotto lo sterno, rintronare, scandagliare dentro lo stomaco, rivoltarti. Infine un'annotazione a margine: quando nel battimano finale l'attore protagonista (l'abile Riccardo Ciccarelli, sguardo sornione e impavido e sorriso che brucia; visto assieme ad un altro bravo componente della “Paranza”, Carlo Geltrude, in occasione del toccante e metaforico “Le regole del giuoco del tennis”, se potete, prima o poi, vedetelo), congiunge le mani e silenzia il pubblico, prende la parola religiosamente e, mentre tutta la platea si aspetta parole su Napoli o la Camorra, su Saviano o la Sanità (dove non troppi mesi fa sono avvenuti altri omicidi in strada), ci dice di mettere un like alla pagina facebook dello spettacolo. Ecco, in quel momento, ho sentito la finzione dei social mangiarci l'anima. Senza sputare nemmeno il torsolo.

Visto al Teatro Puccini, Firenze, il 29 marzo.

Tommaso Chimenti 30/03/2018