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“La mite” di Dostoevskij: il sacrificio di una donna nel silenzio della vita

Esistono personaggi che, consapevoli di un’aridità della loro anima, cercano di trovare uno spazio nel quotidiano fatto di meschinità, prevaricazione e sudiciume, per quel momento di riscatto anche solo immaginato e mai raggiunto. Sono quegli stessi grandi personaggi creati da Fëdor Dostoevskij, sempre disturbati, irrequieti, in preda a forti emozioni che esaltano e turbano profondamente l’esistenza. E per tutti loro il destino sembra essere segnato, quello di una fine, di uno sprofondare in quel sottosuolo dal quale hanno provato a ri-emergere per staccarsi dalla desolazione interiore che rimane aggrappata alle viscere. Si vorrebbe un’oscurità che, diventata almeno penombra, permetta di aprire gli occhi solo per un attimo illuminando sul senso di tutta una vita. La stessa penombra, quella del palcoscenico, che lascia intravedere unicamente un tavolo-letto-tomba sul quale una donna è deposta. Dal lato opposto troviamo invece un uomo, ex ufficiale ora proprietario di un banco di pegni, che, seduto con la testa fra le mani, disperato s’interroga senza darsi pace: «domani che la porteranno via, come farò io a rimanere solo?».LaMite2
Stiamo assistendo a una veglia, quella de “La mite”, la giovane donna dell’omonimo “racconto fantastico” che lo scrittore russo compone nel 1876, ispirandosi a un fatto di cronaca. In realtà, è la storia di una presa d’atto – una confessione – delle colpe dell’uomo che, con la sua severità, la sua freddezza, il suo egoismo e i suoi continui silenzi hanno portato alla rovina una fragile, generosa e appunto mite creatura femminile. Il regista argentino César Brie – insieme alla compagnia indipendente Teatro Presente – adatta e costruisce uno spettacolo denso di una sincera sofferenza e un cupo senso di sciagura, presentandolo, per il debutto romano, al Teatro dell’Orologio.
Il soliloquio del protagonista dostoevskiano – unico personaggio che oscilla tra presente e passato – diventa un dialogo fra marito (Daniele Cavone Felicioni) e moglie (Clelia Cicero) sviluppando il materiale emotivo umano attraverso una drammaturgia dello spazio, del contatto e dello sguardo continuamente cercato e mai trovato o evitato che crea un costante dis-equilibrio di tensioni. In una scena povera – solo tre sedie e un tavolo che diventa di volta in volta letto, porta, banco, finestra, strada – i movimenti mettono in evidenza il sentire interiore, quell’iniziale abbandono amoroso di lei e la volontà di possesso di lui, mostrando una poetica sia dell’assenza sia della moltiplicazione. Infatti – e qui sta la forte intuizione di Lamite3Brie – la donna, ormai ricordo di un’anima evanescente e lontana e quindi non-presente, si trova faccia a faccia con la concretezza del suo corpo morto, simboleggiato da una bambola (realizzata da Tiziano Fario) seduta per tutto lo spettacolo. È un doppio – tema caro a Dostoevskij, basti pensare al protagonista de “Il sosia” – che sottolinea anche la volontà dell’usuraio a mantenere in vita quel forte rapporto giunto al termine, alla deflagrazione. Nulla potrà essere come prima e la richiesta di amore dell’uomo, nel suo primo e unico rinnovato slancio verso la salvezza che solo liminalmente sfiora la compassione, non è accolta. La risposta sarà il suicidio della ragazza, svuotata, impaurita, perduta.
La forza e potenza delle atmosfere del racconto aderiscono perfettamente a tutto quello che viene costruito sulla scena, dove il corpo diventa emanazione delle passioni, portando lo spettatore in quel vortice di profondità e di tragedia che parla di un’incomunicabilità tra anime, dell’impossibilità di amare, d’incontrarsi per scegliere insieme quale via percorrere in un abbraccio salvifico. Quel che resta sono domande: la mite è pronta per il suo ultimo viaggio, pagato con tutte le monete “guadagnate” dai suoi pegni. Si congeda cantando la sua fine, tra il soffio del vento poeticamente restituito con un movimento della gonna; e se lei, all’inizio, era il simbolo della morte contrapposto alla tormentata esistenza dei vivi che restano, al termine, per quello strano e macabro gioco del ribaltamento, uccidendosi diventa libertà contro quello che è il vero disprezzabile vuoto della presenza sulla terra, dell’umanità. Morendo rinasce come una rosa di sangue i cui petali nonostante tutto, miseramente, sono destinati ad appassire.

Marco La Placa 11/02/2017