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“La controra”: adeguarsi alla vita non è malinconica rassegnazione

Italia 1947. La guerra è ormai finita, la vita invece si avvia verso la sua lenta e difficile ricostruzione. Ma «come sarà la vita dopo di noi» se quella che stiamo vivendo, non è come l'avevamo sognata? É questo l'interrogativo che sembra pervadere i personaggi de “La controra”, il nuovo spettacolo di Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli che ha debuttato al Teatro della Pergola di Firenze il 20 aprile. Il lavoro, nato dopo “Servo per due” come esperienza di rivisitazione dei classici ad opera della coppia Favino- Sessanelli, è tratto da “Le tre sorelle” di Čechov, dramma teatrale che esordì a Mosca nel 1901 per la regia di Stanislavskij.
Al centro della vicenda tre donne, Carmela, Maria e Caterina, una insegnante e futura preside di liceo, l'altra moglie sposata a un professore che non ama, l'ultima, la più giovane, bella e ambiziosa ma ancora senza un coniuge. Tutte e tre vivono nel desiderio di emanciparsi nell'attesa di raggiungere Napoli, la città in cui sembrano potersi realizzare tutti i desideri, anche quello di innamorarsi. Con loro vive il fratello Natale (Pierfrancesco Favino), un «talento poliedrico» che suona il violino e sogna la cattedra all'università. La loro bella casa è frequentata da giovani ufficiali, la cui divisa li rende uomini “appetibili” agli occhi di giovani ragazze nubili.
Un palcoscenico senza quinte né fondale, si riempie solo degli elementi che servono a raccontare la vicenda di un'epoca svanita; ogni dettaglio della scenografia è utile a descrivere la psicologia di personaggi caratterizzati dalle proprie, distinguibili, particolarità. La scena è come l'interno di una casa, con finestre attraverso cui guardare il mondo esterno, il dipinto di una mediocre vita di provincia in cui ci si sente soffocare. I protagonisti vivono la propria esistenza senza rassegnazione o malinconia, sono uomini e donne che si danno da fare nella speranza che prima o poi, lì o altrove, qualcosa possa finalmente cambiare.
I tratti dei personaggi si rivelano a poco a poco, almeno all'inizio infatti la percezione è quella di avere davanti una grande famiglia non fatta solo di parentele, ma semplicemente di tante persone. Un individuo dopo l'altro inizia ad essere riconoscibile, perfettamente individuabile anche se il contesto nel quale si muovono è lo stesso: il salotto prima, il cortile poi.
Natale vagheggia un futuro che non arriverà mai a compiersi se non nella sua forma più infelice, vive di illusioni, nostalgia e di maschere che celano un velato e frustrante senso di insoddisfazione alla vita. All'opposto si trova il personaggio - molto efficace - interpretato da Paola Michelini, la minore delle tre sorelle. Decisa e sicura di sé, sogna un avvenire di vero amore e emancipazione; nel momento però in cui prende consapevolezza che la realtà si compie a prescindere da una certa predisposizione alle cose, questo sogno si sgretola nell'accettazione di un destino a cui occorre adeguarsi per sopravvivere. A metà fra queste due figure - che forse rappresentano i caratteri più “estremi”- si trova l'ufficiale interpretato da Guido Caprino. Il generale Ignazio Murro è sposato con una donna che, priva di controllo si avvelena ripetutamente, e di cui non è innamorato. È lui a confessare un sentimento vero, il suo interesse per Maria; questo affetto per la donna è come se lo portasse al di fuori di una vita fatta di apparenza che però non può, né deve, sovvertire o cambiare. «U' surdat' 'nammurat» sopravvive al presente da cui però rifugge ogni volta che pensa, anche un po' utopisticamente, al futuro. È convinto del fatto che «l'uomo deve credere in qualche cosa» e che forse «questa vita è solo la brutta copia» che serve per costruire «quella felicità» a cui molti - ma non tutti - aspirano.
Uno spettacolo in cui niente è immutabile, anzi, tutto si trasforma e si evolve sotto gli occhi dello spettatore. Non a caso anche gli stessi cambi di scena sono a vista, nulla viene fatto dietro il sipario o a luci spente, ma “muta” rivelandosi, in una coreografica poesia.
Ci sono elementi che progressivamente “sfumano” di significato, come il tempo della tavola, protagonista del “rito” dei festeggiamenti a cui tutti sono invitati a partecipare, primo fra tutti l'onomastico della sorella minore. Il progressivo “consumarsi” di questo momento che rappresenta la festa, riguarda soprattutto il dissolversi del concetto stesso di collettività che inevitabilmente si fa individuo. È come se da un insieme indistinto, si staccassero a poco a poco tanti singoli, accomunati a loro volta dall'accettare, in quel tacito arrendersi, il proprio destino.
“La controra” è uno spettacolo che sembra per certi versi, richiamare le produzioni di Eduardo De Filippo all'interno di un contesto che ha in sé anche aspetti cinematografici, soprattutto quando lo spettatore coglie anche i rumori più particolari, come una ciabatta che sfrega sul pavimento o una bocca che sfiora una mano.
Un modo di fare teatro che mischia la tradizione alla possibilità di sperimentare nuove tecniche quindi nette, ma mai dissonanti, rotture e da cui emerge una rara cura per ogni singolo e apparentemente irrilevante dettaglio, senza che nulla sia mai lasciato al caso.

Laura Sciortino 27/04/2016

Foto: Filippo Manzini

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