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L'infanzia e l'adolescenza di Anna Meacci tra i solchi nostalgici del vinile

FIRENZE – “Garko mio collega? No, non sono nel settore della plastica”
“Mio padre mi regalò “Profondo rosso” perché da comunista pensava che fosse un disco politico”

Sul rapporto tra la musica e l'evocazione del passato nostalgico potremmo comporre un pezzo soltanto di citazioni illustri. E sarebbe soddisfacente, e sarebbe esaustivo. Note e parole si aggrovigliano in un groove inscindibile con la memoria, personale e singolare di Anna Meacci, dei suoi trascorsi intimi e familiari, per aprirsi ed ampliarsi all'infanzia di tutti, ai primi timori e turbamenti, le insoddisfazioni, le perdite, le sconfitte, ma anche le piccole gioie, gli amori e le delusioni che accomunano tutti quanti. “Una musica può fare”, spiegava Max Gazzè. Può fare molto: ricordare, rievocare, riportare in vita, far ridere, far piangere, sospendere il tempo, estraniare, far trasognare dentro una bolla di sapone, aprire porte, spiragli, sospirare, respirare, fermarsi a riflettere.
Senza musica la vita sarebbe un errore”, argomentava Nietzsche. Con i capelli ad ananas, il tacco altissimo, i pantaloni in pelle attillatissimi, la Meacci prende a pretesto la colonna sonora della propria vita per il suo “Volevo fare la dj”. La musica è importante, sottolinea momenti che, volenti o nolenti, torneranno, ritorneranno prepotenti a bussare alla porta del presente. E' un battimano folle quello che accompagna i dischi, rigorosamente in vinile old style, con il sottofondo croccante come pop corn a graffiare, prima i 45 giri da bambina (ognuno legato ad una storia familiare), poi i 33 di ragazza. E si sconfina nel rapporto con la madre, con il proprio corpo, con la propria crescita, la propria inadeguatezza, i primi amori.
Siamo lei, siamo con lei. Ognuno pesca dal suo racconto gli spunti simili, le assonanze, spesso spiacevoli, del crescere, i dolori dei passaggi d'età, il prendere consapevolezza ed il perdere d'innocenza. A cinquant'anni è un report, un riassunto, un bilancio esistenziale questo “Volevo” (che già dal titolo nasconde desideri taciuti e voglie represse) a cavallo tra gli anni '60, '70 ed '80, nell'osmosi tra infanzia, adolescenza, gioventù, che poi saranno i momenti che più ricorderemo, proprio perché avevamo tutta la vita davanti e tutte le scelte erano ancora possibili, le porte ancora aperte, niente precluso e nessuno poteva dire chi sarebbe stato e che cosa avrebbe fatto del suo tempo su questa Terra. Tutto era da scoprire, tutto da mordere ed assaggiare, sbocconcellare e bere, era ancora il tempo per poter essere sprovveduti e ingenui ma anche agguerriti e spavaldi: ecco Stay Hungry, Stay Foolish.
La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c'è fuori”, arpeggiava Sebastian Bach. Si sorride e ci si commuove nello scorrere di questo diario di provincia dove si sentono gli odori casalinghi come la polvere della noia, lo scivolare della ghiaia sotto le ruote delle biciclette, la pesantezza della nebbia, il gelo di certe stagioni della vita che ti rimangono appiccicate addosso, pur crescendo, pur cambiando prospettive e domicilio. Non puoi dimenticare le origini, che saranno tenerezza e traumi, sogni incantati o brividi di paura. Come certe canzoni che ripartono nella mente quando meno te lo aspetti, quando pensavi di averle dimenticate, esorcizzate, quando pensavi ormai di esserne finalmente immune. E' anche una geografia familiare, la madre sarta, dura ma a suo modo amorevole, il padre amante di Puccini e della Russia rossa, la sorella bella che le passava i vestiti che smetteva. E' un'altalena di pathos e risate, di calore e mancanze, di struggimento e spasso corposo di pancia.
La musica è il solo passaggio che unisca l'astratto al concreto”, sedimentava Antonin Artaud. Un disco ed un ricordo appassionato, leggero e profondo, da starci dentro, da respirarselo con gusto e tatto, con rispetto ed in punta di piedi, da ascoltare silenziosamente per poi deflagrare in uno scoppio di denti che aprono le labbra a mezzaluna come una liberazione. “La musica è l'arte che è più vicina alle lacrime e alla memoria”, decretava Oscar Wilde. E girovaghiamo come cani randagi dentro i percorsi ed i sentieri di Anna Meacci bambina assorta, poi adolescente tradita, dopo ragazza che voleva ribellarsi al piccolo mondo antico. E' un juke box dell'anima, un giradischi che magicamente apre le danze sui segni e le crepe del passato.
La musica è una delle più importanti cose inutili del mondo”, punzecchiava Caetano Veloso. Un sound che rimbalza dal piatto dei dischi a sotto lo sterno, fa cassa e rullante mentre passa la Barbie come le hit sensuali degli Abba o Barry White. E' la fiaba della crescita, che è sempre difficile e difficoltosa, amara e mai indolore, e la musica in questo caso è il bosco del passaggio tra le varie età, musica che segue e che protegge, che fa da pugnale e parafulmine, musica che accompagna o scava, che è sollievo o coltello nella piaga. “La musica è la scienza delle emozioni” jazzeggiava George Gershwin. E scivolano “Je t'aime” come Battisti, Modugno e “Non ho l'età”, o lanciandosi in un'imitazione “avatariana” di Patty Pravo prima di sconfinare nel grande gioco sanremese. E' tutto amore che cola come rimmel, come lacrime luccicanti, che siano di gioia o di sconforto. “Non si vende la musica. La si condivide”, dirigeva Leonard Bernstein. Quello che ha fatto Anna Meacci.

Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 20 febbraio 2016.

Tommaso Chimenti 21/02/2016