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L’atteso ritorno di Romeo Castellucci a Cagliari con “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”

“Questo spettacolo non è esatto, questo spettacolo è merda d’artista. Vedere il proprio padre perdere le feci per casa, in cucina, in salotto è (in se) bestemmia.” Queste le parole che conclusero la lettera aperta che Romeo Castellucci scrisse nel 2011, in seguito alle aggressioni esplose intorno al suo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, opera che oggi rappresenta la prima parte di quello che è poi diventato un dittico insieme a “Il velo nero del Pastore”.
In tale occasione Castellucci e la Societas Raffaello Sanzio, compagnia di punta della ricerca contemporanea nazionale ed internazionale, presero le distanze da gruppi di fondamentalisti cristiani, che – sia a Parigi che a Milano - decisero, preventivamente e senza conoscerne i contenuti, di boicottare lo spettacolo. Anche qualche sentinella cagliaritana avrebbe fatto cosa buona e giusta nel sedersi a teatro (Teatro Massimo dal 20 al 22 novembre, calendario di Sardegna Teatro, Teatro di rilevante interesse culturale, diretto da Massimo Mancini) per comprendere che, in sé, l’opera non fosse affatto irriverente, empia, sacrilega, blasfema, a differenza di molti giudizi (ripeto, preventivi) circolati allora, come qualche giorno fa, a danno della libertà d’autore e di espressione.
Nell’assistere allo spettacolo appare, invece, manifesta la volontà dell’autore di incontrare Cristo, mettendo assieme il proprio volere ed il Suo volto. Dalla parete centrale di un appartamento asettico nei colori e nell’arredamento, ci osserva sullo sfondo “impassibile e magnifico” il Cristo Salvator Mundi di Antonello da Messina, scelto da Castellucci in quanto iconografia di una sofferenza universale; l’“Ecce Homo” che, per estensione, va ad indicare la passione di Gesù, come emblema di una persona emaciata, sfigurata dalla sofferenza.
Quel volto assiste alla quotidianità dolorosa cui sono state, sono e saranno sottoposte innumerevoli famiglie; in questo caso un figlio, solo, cerca di assistere suo padre. Volutamente didascalica, la scena si ripete ossessivamente, come movimenti e dialoghi, se così possiamo intendere flebili domande, sorrisi abbozzati e frasi di circostanza, espresse dal figlio ed alternate ai mugugni e ai lamenti paterni. Inevitabile la forte empatia creatasi con quest’ultimo (validissimo Gianni Plazzi, nel ruolo del padre) empatia che, non è nata subito, nei confronti del figlio (Sergio Scarlatella, altrettanto valido). Pur essendo tanto amorevole, esso trasmette, credo sempre volutamente, il senso di inadeguatezza di un uomo in giacca e cravatta, bloccato, sulla soglia nell’atto di andare a lavoro, dalle feci paterne strabordanti dal pannolone.
Anche lo spazio, al principio bianco e asettico, si sporca più volte, contribuendo a dar vita ad una riflessione cruda sulla caducità dell’esistenza umana e sull’obbedienza dei figli, che il quarto comandamento definisce alla perfezione. In maniche di camicia, con un secchio in salotto, il quarantenne rassicura suo padre, con vezzeggiativi e una calma quasi irreale. Con acqua presto diventata scura e senza sapone, la spugna accarezza le natiche cadenti, nude e serrate, mai separate e pulite a dovere nei vari lavaggi. Tale disagio è interrotto solo da un necessario e, atteso, grido d’aiuto: al terzo lavaggio, tra cumuli di biancheria macchiata.
Scarlatella si reca, così, al cospetto del Cristo alla parete, spalanca le braccia ed accarezza quel viso, all’altezza delle labbra. Nel frastuono, la grande iconografia comincia a trasudare inchiostro scuro. “Tutto l’inchiostro delle sacre scritture qui pare sciogliersi di colpo”, mentre l’immagine si lacera, cadendo a brandelli per lasciare apparire, su tavole nere, la scritta luminosa “You Are My Shepherd", “Tu sei il mio pastore”, celebre frase del salmo 23 di Davide. Ad uno sguardo più attento, all’alzarsi delle luci, mentre uomini stretti in abiti neri si infilano dentro alle parole, si scorge però un Not che si insinua dopo You Are e nelle menti, come un tarlo.
Tu non sei il mio pastore. “La frase di Davide – riprende Castellucci - si trasforma così per un attimo nel dubbio. Tu sei o non sei il mio Pastore?  Il dubbio di Gesù sulla croce: Dio perché mi hai abbandonato? espresso dalle parole stesse del salmo 22 del Re Davide. Questa sospensione, questo salto della frase, racchiude il nucleo della fede come dubbio, come luce. E allo stesso tempo è sempre lei, la stessa domanda: essere o non essere? O piuttosto: essere E non essere.”
Interessante il tappeto musicale composto da Scott Gibbons; in apertura l’ingresso degli attori avviene quando le luci sono ancora accese e sono accompagnati da rumori, brusii e suoni quasi ossessivi, che vanno a ripetersi o ad alternarsi ai silenzi nei momenti topici. Come uno schiaffo la tensione viene troncata nel suo apice. Resta impresso un fermo immagine, a trasmettere il senso di un’agonia immobile: il braccio del figlio cinge la schiena paterna, entrambi spalle al pubblico e viso verso il Cristo. E’ questione di secondi, poi la vita ricomincia a scorrere, incerta, davanti ai nostri occhi ed a quelli di un figlio, impotente. Come le feci e le urine ematiche, sparse dal vecchio prima e durante l’epilogo.

SUL CONCETTO DI VOLTO NEL FIGLIO DI DIO
di Romeo Castellucci
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio
Regia: Romeo Castellucci
con: Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella Dario Boldrini, Vito Matera e Silvano Voltolina
Musiche: Scott Gibbons

Cinzia Crobu 27/11/2015