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L’anamnesi intima e tragicomica di Marco Bianchini

Nell’ottavo giorno del Festival Inventaria al Teatro dell’Orologio è andato in scena “Anamnesi” per la sezione Monologhi/Performance. Marco Bianchini, attore, autore e regista vicentino del monologo è reduce da un itinerario formativo che parte dal teatro di narrazione. Come un “one man show” armato di un leggio, ha dato vita alla sua Anamnesi che rielabora l’esperienza autobiografica di una malattia mortale, affinché nulla vada perso.
L’anamnesi è una storia fisica, ma non dice nulla sull'individuo e sulla sua esperienza, di come esso affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è «soggetto» nella scarna storia di un caso clinico. Bianchini ha presentato un «chi» oltre a un «che cosa», ha messo al centro di un quadro a tinte ironiche e drammatiche il soggetto umano che si relaziona alla malattia, soffre, si avvilisce, lotta, approfondendo la storia di un paziente, lui stesso, ricoverato d’urgenza per una grave forma di meningite.
“In una gelida mattina d’inverno, nell’ultimo giorno del 2005, un’ambulanza attraversa il centro di un paese addormentato, si ferma davanti ad una casa e riparte a sirene spiegate”. È l’inizio di un viaggio nei misteriosi circuiti della mente, nei anamnesi002ricordi, nei pensieri, nelle sensazioni, nelle cartelle cliniche. Si approda in una stanza d’ospedale in cui il paziente è rilegato sul letto dai tubi che girano intorno al corpo e che lo possono strozzare se si muove nella direzione sbagliata. Gli orizzonti della vita là fuori sono sfocati, le pulsioni sono cristallizzate, la fame è di pasti conditi e fuori orario, il tempo non passa mai, i familiari vanno e vengono e indossano le tuniche per non contaminare l’ambiente, così però non si distinguono facilmente dagli infermieri.
Tutto diventa spunto per un’ampia riflessione sulla fragilità umana, sul rapporto dell’uomo con le malattie e sui cambiamenti che provocano nella vita delle persone. Affiorano i falsi miti, le convenzioni radicate, l’assurdità dei foglietti illustrativi.
“Non esistono parole per descrivere il dolore, si utilizzano le metafore ma poi c’è una soglia oltre il quale gridi”. Non esistono, ma Dostoevskij ci si è avvicinato molto quando descrisse l’epilessia, e con un cambio di luce Bianchini esce dal suo personaggio e si appresta a leggere quelle parole.
La galoppata attraverso il tempo continua e i “deliri” nel cercare di raccontarci la storia della medicina, ci conducono al Giardino dell’Eden con i suoi riferimenti storici e religiosi. Qui Adamo ed Eva preferivano non averlo assaggiato il frutto della conoscenza.
La scenografia seppure inesistente inizia ad affollarsi di “personaggi” ben mimati che cambiano continuamente registro al racconto e che regalano qua e là una risata in sala. E via ancora nella Parigi ottocentesca, sedotto da una bella donna di Montmartre.
Il mirino dell’attore è decisamente fisso sulla superficialità e volontà di distanza che la malattia porta spesso in chi ne è spettatore. Lui che l’ha vista in faccia e che si rattrista rispetto a tutto ciò che finisce come la musica, l’amore, le feste, a dieci anni dal coma ci accompagna alla fine con un riso amaro: “alla fine ce l’ho fatta a non affrontare una fine”.

Livia Filippi 20/05/2016

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