FIRENZE – Coloratissimo come uno zoo, affollato come una foresta amazzonica è il “Jungle Book” da Kipling trattato dalle sapienti mani di Bob Wilson. Già il sipario dello spettacolo al Teatro della Pergola, unico partner italiano che ha coprodotto l'opera assieme ad altre sei istituzioni europee affiancando il Theatre de la Ville parigino, aveva vagamente un gusto circense con patchwork intessuti insieme che ricordavano i cappelli o i pantaloni dei clown, quelli con il naso grosso e rosso e le scarpe gigantesche ai piedi. Siamo all'interno di un'atmosfera al gusto del Cirque du Soleil da una parte, dall'altra si avvicina molto al musical in un mix tra Tarzan e Il Mago di Oz, Sandokan, Il Re Leone e Paradise Lost. Quattro musicisti nella buca, nove attori in scena per un grande kolossal (durata però felicemente contenuta: 1h 15') che pare creato per i palchi di Broadway e per quel tipo di intrattenimento giulivo e colto e lieto, spumeggiante fatto di canzoni e bollicine e costumi, balli e fondali cangianti. Di fondo si assiste alla guerra costante tra l'uomo e la Natura, gli spari iniziali sono lì a confermare questa tesi. Ma gli animali hanno molto da insegnare all'uomo e alla sua arroganza: l'orso, la pantera, la tigre, la scimmia vivono in simbiosi con gli alberi e le piante, con le altre bestie che cacciano e dai quali sono cacciati in un equilibrio e un'armonia stabilita non dai singoli ma da logiche più alte. Mowgli, il cucciolo d'uomo, sradicato dal suo villaggio, imparerà le difficoltà e le bellezze, la semplicità della Natura, rimanendo però a metà strada, non pienamente accettato dagli animali proprio perché umano e non più accolto dagli uomini proprio perché “sporcato” e “profanato” dal contatto continuo e reiterato con la moltitudine delle belve selvagge.
Cosa ci vuole raccontare Wilson al di là dei colori sgargianti, dei costumi scintillanti e delle musiche pirotecniche, insomma della forma a discapito dei contenuti? Vuole riportare in auge la favola del buon selvaggio colonialista con le sue conseguenti teorie ottocentesche sociologiche e antropologiche? Oppure che la legge della giungla, per quanto essa sia violenta e brutale e feroce, è certamente più vera di quella degli uomini proprio perché gli animali non conoscono la differenza tra il Bene e il Male mentre l'uomo ha in sé l'Etica e la coscienza e può scientificamente scegliere di essere scorretto, ingiusto, stratega, sadico, negativo? O ancora la ricerca della madre (in senso lato, le origini, la nostra storia) come punto nodale e focale dell'intero show (in inglese e francese) ed elemento portante di ogni essere vivente?
All'inizio cala all'alto la scritta EXIT mentre si abbandona la civiltà e ci si incunea nel fitto della vegetazione, scende un canestro con tanto di tabellone, nasce una foresta di conifere, mentre alla fine ecco pali della luce a segnare il ritorno alla modernità e alla civilizzazione con il cartello DEAD END come monito a ricordarci il viaggio catastrofico intrapreso dall'uomo, il tunnel senza sfondo verso la distruzione della natura con il disboscamento a favore del profitto, l'innalzamento climatico, la distruzione di interi ecosistemi, l'annullamento delle biodiversità, il depauperamento ambientale ed ecologico, l'azzeramento di habitat a vantaggio del consumismo, la cementificazione e lo sterminio di specie in via d'estinzione per il guadagno nel presente con i paraocchi verso il domani.
L'uomo depreda, uccide, prende arrogantemente, annienta, per controllare perché gli incute paura e mistero, l'Eden, la foresta, il bosco, il labirinto di grovigli di piante, dal quale è stato cacciato come dall'utero della madre che lo ha espulso. Ma queste riflessioni vengono schiacciate e sommerse dai canti (sopraffino il duo CocoRosie) e balli, dai colori di questa esibizione che colpisce e stupisce certamente che però ci lascia una patina d'irrisolto, uno strato di mancanza, un velo di troppa formalità, un grande spettacolo (perché lo è a tutti gli effetti) che però (non è obbligatorio farlo intendiamoci) non riesce a scavare e ad andare in profondità lasciando inevase le domande, non riuscendo ad approfondire le tematiche, fermandosi alla bidimensionalità, al gesto, a quelle immagini rarefatte (peraltro ben architettate e costruite con classe ed eleganza) che colma gli occhi ma non sazia, lasciando la dialettica nel guado, la riflessione naufraga tra charme e ugole. Un buono (anzi, buonissimo) teatro per ragazzi di ogni età, che risveglia il nostro fanciullino ormai troppo compresso tra catrame e smog, tra cemento e asfalto.
Tommaso Chimenti 05/02/2022