“Non è vero che da morti non si soffre, è solo diverso.” Parte da questa considerazione l’inedito, dirompente, emozionante spettacolo “ Io, Sarah”, diretto da Giovanni Arezzo e tratto dal romanzo di Francesca Auteri “Ultime ore di Sarah Kane”.
Il testo, adattato dallo stesso Arezzo e Alice Sgroi, unica interprete della pièce andata in scena in prima assoluta al Centro Zo di Catania, è un sensibilissimo e tagliente racconto delle ultime ore di vita della celebre drammaturga inglese, massima esponente del cosiddetto in-yer-face theatre, morta suicida a 28 anni.
Tutto ha inizio dal flusso di complessi e contorti pensieri che affollano la sua mente prima di quel disperato gesto che l’ha portata a porre fine alla sua esistenza , e da una lettera, confessione di un amore drammatico, infelice, estremo, disperato, incommensurabile.
Su una scena completamente vuota , Alice Sgroi da’ voce e corpo a una Sarah Kane vera e sincera, che vomita, sputa, urla al mondo tutta la sua sofferenza e fame d’amore, lasciandosi andare ad un monologo post mortem, in prima persona, tra ricordi, visioni e rimandi alla sua produzione teatrale.
Un itinerario interiore tra le riflessioni di una donna condannata a sentirsi viva anche dopo essere morta, tra dannazione e salvezza. Intrappolata tra le bianche mura di una stanza di un ospedale psichiatrico, in un’atmosfera di solitudine e odore di medicinali, silenzi assordanti, sigarette desiderate per non soffocare, tremori e formicolii alle gambe, freddo, grida spezzate da singhiozzi, echi di voci lontane e amplessi negati, dimenticare sembra impossibile. La ragazza appare come “carne morta” che geme, sola, nuda, fa l’amore con la morte, divorata dal male di vivere, da mancanze e assenze incolmabili , con uno scarafaggio come unico compagno di morte/vita. Si contorce, si piega, piange, si logora per quel sentimento non ricambiato, anzi negato, per quelle promesse non mantenute, quegli sguardi mancati, per la fredda indifferenza che le ha ridotto a brandelli il cuore, gelato il sangue nelle vene. A salvarla sarebbe bastato un abbraccio, una carezza, una possibilità.
Travolgente, commovente, dotata di una leggiadria che la carica di dolcezza e vulnerabilità, Alice Sgroi, concentrato di potenza scenica e intensità interpretativa, domina il palcoscenico, non si risparmia, esce fuori da sè per divenire altro, per indossare l’anima e la mente di una Sarah Kane credibile, vibrante, dilaniante, ma mai patetica, grazie anche all’incursione di un registro ironico che alleggerisce i toni senza mai svuotarli, snaturarli, o banalizzarli.
Si delinea un ritmo fluido, una soffusa lunga canzone malinconica, cruda e struggente, in cui parole e musica si sposano, vanno di pari passo a scandire il beat di un cuore spezzato e colmo di un amore che chiede, supplica, implora di amare e essere riamato.
Le singole battute cadenzate nella loro potenza di significato, si fanno note ora gravi, ora acute, e la morte si perde, anzi si carica di vita , di quella vita uccisa e soffocata dalla mancanza di speranza.
“Io, Sarah” è la parabola discendente di un’artista geniale, di un’anima troppo fragile per una società troppo cinica e crudele, strappata come i brandelli degli abiti da cui si libera nel finale, o i frammenti di quelle lettere che, distrutte in mille pezzi, si fanno coriandoli di una festa, petali gialli di un girasole che vogliono illuminare un buio infernale, filtrare e sanare una crepa dell’anima che non si può ricucire, da cui non passa luce, che sta lì immobile, ti fissa, fa male, uccide.
La regia moderna, personale, sapientemente studiata e accurata di Giovanni Arezzo, restituisce sulla scena una Sarah Kane inedita e umanissima. Ne coglie la sua personalità più intima e, quasi in empatia con lei, entra nelle pieghe dei suoi pensieri, facendoci conoscere una donna vicina a noi, in cui chiunque si può ritrovare e riconoscere: nei suoi tormenti, nevrosi, mancanze, desideri, bisogni, paure, lacrime.
È abilissimo nel sovrapporre diversi piani: la Sarah artista, con la sua produzione drammaturgia che si inserisce con frammenti e citazioni di brani delle sue celebri opere come “4:48 Psychosis”, “Phaedra’ s love”, “Blasted”, “Cleansed”, “Crave”, e la Sarah “persona”, con i suoi fantasmi che non la abbandonano mai, nemmeno dopo la morte, con la sua creatività, la sua patologia, la sua depressione, le sue giornate segnate da pillole e dottori, e il suo amore incompreso e impossibile.
Uno stile di regia riconoscibile e originale, grazie anche al sapiente uso diegetico ed extra diegetico delle musiche ricercate nei minimi dettagli, al sound elettronico che strizza l’occhio all’hip hop, ai giochi di luce, ai movimenti scenici, e ad alcune voci registrate e fuori campo (fortemente intensa e toccante quella di Arezzo, interprete del monologo di "Febbre").
A venti anni dalla sua scomparsa, “Io, Sarah”, si rivela uno dei pochi lavori che ricostruisce un ritratto a 360 gradi, completo e fedele alla realtà della Kane, alla sua essenza.
Un viaggio interiore nella vita di un’artista e nella sua arte. Una lettera d’amore, una preghiera laica e talvolta blasfema, un grido disperato carico di vita. Uno spettacolo dilaniante, in cui si ritrovano disagio, dolore, poesia, speranza, e semplicemente Sarah Kane, con il suo stile e la sua sete d’amore non ricambiato, descritta tramite una drammaturgia necessaria e potente.
Un testamento della sua sensibilità e delle sue debolezze, in cui la morte di sottofondo si trasfigura in un girasole che restituisce fiducia e voglia di vivere. E del dilemma “amami o uccidimi” che sottende l’intero monologo, non resta che un’unica risposta: uccidersi per amare, morire per continuare a vivere.
Maresa Palmacci 16-09-2019
Ph. Gianluigi Primaverile