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“Invettiva Inopportuna”: un uomo nella rete, clausura e fuga

BOLOGNA – C'è un uomo, solo e disperso e disperato e abbandonato, dentro un labirinto di ragnatele. Forse ha costruito da solo questo suo eremo dal quale non riesce ad uscire, intrappolato salta, si muove confuso e concentrico cercando balzi per trovare la via d'uscita in questo puzzle di fili e morsetti, in questa gigantesca tenda da campeggio, in questo recinto da zoo dai confini certi, in questo steccato dove può correre tra cavi e corde da eludere, schivare, zigzagare. Febo Del Zozzo, nella sua tuta nera da rapinatore di banche, una sorta di Arsenio Lupin o aspirante alla Casa di Carta (sembra scansare infatti i raggi laser di qualche allarme da celluloide), è un animale in gabbia che si arrampica, spicca in alto, tira e fustiga la rete di corde ben tese in questo bivacco dell'anima dove è consegnato come in prigione, parcheggiato, escluso, rinchiuso. E' una fitta rete di relazioni dalle quali l'uomo è schiacciato, messo all'angolo da se stesso in questo meccanismo che prevede la costruzione dei legami e legacci e successivamente lo scioglimento dei nodi, il disinnesco delle attrezzature dalle proprie asole, il disincaglio delle articolazioni. “Invettiva Inopportuna” (vista al Dom, la Cupola del Pilastro, prod. Laminarie, ERT Teatro Nazionale) è un complesso ganglo di imponenti canapi ad intrecciarsi, un'installazione contemporanea dove al suo interno vive e cerca la luce il performer che la abita (come Rezza in quelle della Mastrella) e tenta di sbarazzarsi delle funi che lo ancorano e lo fissano alla sua vita moderna fatta di infiniti rispetti e doveri, di orari e responsabilità. Si percepisce che sia stata concepita durante la chiusura del lockdown e si sente chiaramente la claustrofobia della mancanza di fiato, di respiro, di aria, di domani, di futuro.Invettiva 2.png

Il dispositivo mette angoscia (2 km di sartie), così come le musiche straziate e i rumori incandescenti in questo buio pece che morde ossessivo, in quest'ammasso di graticce intrecciate che sembrano fagocitarci, prenderci, tenerci bloccati, tagliole e trappole in questo bosco che di fiabesco non ha più nemmeno i contorni. Siamo Cappuccetto Rosso persasi tra i rami distorsivi e i fusti conturbanti, tra i rovi contorti e le cortecce dell'esistenza, siamo Teseo e il suo filo alla ricerca spasmodica di Arianna. Tutto è preciso, annodato come una pratica di bondage, fiocchi stretti passati in carrucole da tortura, linee che diventano sbarre dalle quali poter solo urlare il proprio disappunto doloroso, la propria inutile protesta gridata e inascoltata. Del Zozzo è Dante dentro questa architettura-selva oscura che la diritta via era smarrita, uno spazio microfonato e amplificato che esalta ogni passo e colpo e rimbomba ogni esalazione di forza e violenza, ogni sudore profuso nel cercare un passaggio, un buco nella serratura, un foro nella recinzione per guardare il mondo oltre questo reticolato di oblò. E' un ragno alpinista impigliato come una falena in questo habitat mortale, tra queste corde come frontiera, come barriera, come pelle tra il dentro e il fuori.

La struttura è già drammaturgia e molto ci ha ricordato quella che predispose il Maestro colombiano Enrique Vargas per la sua opera “Come deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo”. Un lavoro che parla di fragilità, di rottura, di incastri. Il nostro Spiderman Invettiva inopportuna.jpgci dice, in un loop di cuore di tenebra: “Ad un certo punto viene il giorno dove si sfiora il fondo”. E tutti siamo chiamati in causa, nessuno escluso, la campana è ormai già suonata per ognuno di noi. Questa impalcatura, che ricorda piramidi egizie e torri medievali e fortezze mastodontiche e costruzioni mesopotamiche e strutture Inca, questa muraglia di cavi, questa cinta di cime e baluardo di gomene che pareva inespugnabile e grottescamente inattaccabile (anche il Titanic era inaffondabile) alla fine cede, viene giù faticosamente distruggendo il lavoro certosino di assemblamento e assemblaggio. I morsetti si staccano, si stancano, e rimangono dei fili appesi e sospesi senza cadavere dell'impiccato a penzolare. Le carrucole fanno un rumore sordo di espropriazione, di corpi transfughi che abbandonano la loro solidità e si fanno gassosi. Le ragnatele adesso si fanno deboli, scioglievoli come il gioco dello Shangai con le bacchette che cadono e si disuniscono e si spandono a terra. Ecco che tutta lo sforzo maniacale del costruire diventa il distruggere del telaio, l'annientamento dei fili delle Parche. Fuga per la Vittoria. Fuga da Alcatraz. L'uomo, l'ombra, la figura al suo interno, questo Prometeo Incatenato, ha trovato il crack, il colpo decisivo, il punto dove fare perno e far saltare, lentamente e clamorosamente, il banco, il piede di porco sul quale far leva, scovando l'anello debole, creando il pertugio, allargando il buco, uscendo a riveder le stelle come Houdini. Il campo di battaglia adesso fa bella mostra di sé, le nostre radici, le nostre ossa, le nostre carni aggrovigliate. In quel Campo di Marte slabbrato e disfatto sul pavimento ci siamo noi che costruiamo impegnativi formicai per poi, al primo soffio di vento, cadere rovinosamente. L'Uomo che si crede Immortale e invece è soltanto uno dei tre porcellini, quello che edifica la sua casa con la paglia. E sappiamo tutti come è andata (e andrà) a finire. Questa Invettiva non era Inopportuna. Era necessaria.

Tommaso Chimenti 20/10/2022

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