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Il Mito diventa contemporaneo con "Interpretare l'Antico"

GIARDINI NAXOS – La polvere di granelli di lava nera sono arrivati, portati dal vento, fino a qua dall'Etna, ad annerire le pietre bianche del lungomare, ad affumicare quelle di magma ruvide al tatto che sanno di mare. Una statua della vittoria traforata, alata come le migliaia di formiche giganti che svolazzano tra gli scogli scuri affiorati nella baia che sembrano leoni marini spiaggiati al Pier 39 a San Francisco, ci indica il Parco Archeologico vista mare. Ricorda quello di Nora, in Sardegna. A Giardini Naxos due anni fa morì per un infarto, mentre stava nuotando, Felice Gimondi, mito del ciclismo. Già, il Mito, qui vivo, presente, attivo, permeato, tangibile. Una scultura di Teocle, che fondò la città nel 734 a.C. come prima colonia greca, dà lustro al suo creatore. Da qui, in antichità, ripartivano gli ambasciatori greci per 217946153_488264462144742_1280878621243170566_n.jpgtornare in madrepatria. Giardini, una lingua di ristoranti e alberghi, è devota alla Madonna Raccomandata. Nell'Italia del nepotismo e delle conoscenze, anche la Vergine Maria, prima di essere Assunta, deve essere necessariamente Raccomandata. E' il mare di Taormina che si vede alta e illuminata e le sue luci sembrano altre stelle che punteggiano questo cielo corvino e fosco. Il mare è in città, la lambisce, la lecca, la carezza con una risacca che ora coccola, adesso impaurisce. La street art di ceramiche valorizzano i piccoli tunnel che collegano le strade: c'è uno squalo pinocchesco che ride e una scritta lì accanto, feroce e cruda: “Il mare sembra che ti culli invece ti vuole ingoiare”. Come non pensare a Collodi? O a Scilla e Cariddi, più vicine geograficamente, di flutti e marosi, di schiuma e bocche di pesci. Il panorama è morbido come le panelle al limone, il profumo nell'aria sa di pistacchio. Una chiesa celeste, che sembra un'astronave con il tetto a punta in stile tirolese, campeggia come fosse appena atterrata.

In Sicilia219352940_489373215367200_8993088824436537800_n.jpg Mito e Teatro sono spesso a braccetto, pensiamo all'Inda di Siracusa come alle Orestiadi di Gibellina. Dopotutto gli scenari naturali si prestano, i fondali storici esaltano le storie millenarie. Difficile è riproporle in modo contemporaneo, come forma e durata, come impatto culturale, senza pesantezza. Ci è riuscita la rassegna “Interpretare l'Antico”, (cinque piece tra il 31 agosto e il 15 settembre) a cura della Rete Latitudini del presidente Gigi Spedale, nel compito di rendere l'universalità del teatro greco, con i suoi caratteri e le sue metafore, libera da quella patina di polvere che spesso, in occasioni simili, soffoca la partecipazione, imbriglia le retine, non scuote ma inciampa, non cattura ma provoca sonnolenza. Antico, appunto, e non vecchio, una sottile, fondamentale differenza. Il "Festival Naxoslegge", diretto da Fulvia Toscano che, con il Parco Archeologico di Naxos diretto da Gabriella Tigano, hanno invitato Spedale ad organizzare la rassegna all'interno del più ampio contenitore "Comunicare l'Antico".

E il Mito declinato al pop, nella sua doppia accezione, moderna e popolare, è il mantra, la barra dritta che la regista Cinzia Maccagnano mette, con rigore e coerenza, nei suoi lavori. Qui a Giardini Naxos abbiamo avuto l'occasione di poter vedere, a cura della sua compagnia, la Bottega del Pane formata da attori siciliani (un bel cast compatto, esperto e combattivo: oltre alla regista, Marta Cirello, Raffaele Gangale, Dario Garofalo, Luna Marongiu, Cristina Putignano, aiuto regia Maria Chiara Pellitteri) formatisi alla scuola dell'Inda ma adesso con sede a Roma, due suoi pezzi, il nuovo “Orestea. Agamennone + Coefore” da Eschilo, il secondo “Dyskolos”, da Menandro. L'uso delle maschere, costruite sapientemente dalla Marongiu, hanno esaltato e colorato entrambe le prove, sfavillanti, eccentriche, eccitanti, piene di sprint e grinta, pungenti e vive. L'artigianalità si vede, si sente nelle movenze, nella costruzione delle scene, nell'impianto registico, nella forma funzionale al testo, nell'approccio, nei costumi, quell'artigianalità che ci porta dentro il teatro di giro, dentro le ditte, dentro il fare di mani che vanno di pari passo con le idee. Se del Mito le storie sono per lo più note, anche solamente a grandi linee, la sfida è rendere il “recinto” dentro il quale queste si muovono compatibile con i tempi attuali, malleabili, commestibili, fruibili, il che non significa svilirle o semplificarle o annacquarle o ridurle grossolanamente. Quello della Maccagnano, visionario ed effervescente e immaginifico, è un lavoro di cesello e ripulitura, di finezze e piccoli tocchi, di arguzie e acume per un risultato pieno, soddisfacente, di ampio respiro.

Se appunto la storia di Agamennone è conosciuta, serve mutare forma, qui non sinonimo di superficiale, per far sì che le vicende millenarie riescano ancora a colpire i nostri immaginari. Ecco 220410266_489387438699111_6253618095702737190_n.jpgche il coro arriva da una piccola altura, in una sorta di flashback che ci fa materializzare immediatamente Spoon River con quel “dormono sulla collina” come si fossero (o fossero stati) improvvisamente risvegliati per raccontarci nuovamente le gesta della tragedia di Oreste e Clitennestra. Armati di bastone, che battono come il Maestro Cuticchio per dare il ritmo a strofe e frasi, per appuntare e sottolineare momenti, per enfatizzare contrasti in coreografie, adesso come lance, ora come microfono alla Freddie Mercury, vorticano attorno ad un semplice tavolo che si fa tomba e sarcofago (ma anche baratro, pozzo artesiano di Alfredino, congelatore). Un coro di maschere che, con lo svolgimento della piece, prendono corpo e vita, assumono sembianze riconoscibili, ci parlano ruffiane, ci interrogano, ci bisbigliano: la mano nel doppiopetto come Napoleone, le scarpe dai colori sgargianti tambureggiando in danze rituali. Ecco che le maschere ci ricordano personaggi della Prima Repubblica: ci vediamo, in declinazioni del tutto personali, De Michelis e Forlani, Craxi e Pannella, De Mita, una che potrebbe essere un mix tra Funari, Forattini e Nedved. Guizzano. Scintillano. E dal coro si stacca Clitennestra in stile nipponico con un abito rosso fiammante, tra un burqa e la protezione da apicoltori, con un copricapo allungato a metà strada tra Nefertiti e Marge Simpson, Agamennone ha una maschera che ricorda lo stile africano e barba lunga dorata ittita come spaghetti di grano arso ad essiccarsi, Cassandra invece ha un aspetto più orientale, Egisto ha un busto di addominali da football americano, Oreste ricorda un mash up di luccichini tra Elvis e i Righeira. Maschere che una volta tolte diventano teste impiccate e impalate a fare scempio e fondale, terrore e monito.

Ancora 220453490_489373242033864_8657751269466869094_n.jpgmaschere in “Dyskolos” (misantropo; di Menandro) stavolta più vicine alla forma dei Playmobil. Gli attori stanno di schiena su piccole panche, come in panchina in attesa di essere chiamati a giocare (play in inglese è sia recitare che giocare) nel campo-agorà scenico. Ogni commediante ha attorno a sé quattro-cinque maschere per entrare ed uscire dai ruoli. La Bottega del Pane ha realizzato “Dyskolos” in un formato veramente ristretto e compatto (5 minuti) per la partenza del Giro d'Italia del 2019. E' un brulicare vorticoso e dolce è naufragare tra questi volti: la fanciulla balla flamenco e parla come Lino Banfi, il pretendente ricco invece sciorina un dialetto vagamente emiliano, il padre burbero, che pare un disegno da manga giapponese, ricorda nel suo bofonchiare onomatopeico e gutturale l'emigrante Ametrano che torna dalla Germania nel Sud Italia per votare in “Bianco, Rosso e Verdone” ma anche un aborigeno che soffia nel suo didgeridoo, il fratello contadino somiglia a Beppe Fiorello, un pastore cinesizzato ha la giubba circense, la vecchia invece ha una faccia che sembra appena uscita dal Cunto dei Cunti, altre maschere invece ci hanno sollecitato le Teste di Moro, i grandi vasi di ceramica siciliani, mentre il padre del futuro sposo ha i tratti iconografici del filosofo con barba canuta, in una miscela tra Umberto Galimberti e Renato Carpentieri in “Caro Diario”, e porta con sé “un ombrello di carta di riso e canna di bambù” di battiatesca memoria (dopotutto Milo, suo paese, è vicino). Con la Bottega del Pane il Mito si fa companatico.

Tommaso Chimenti 12/09/2021

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