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"Insulti al pubblico": testo vecchio che non punge e non scardina la platea

CALENZANO - “Intellettuali d'oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani, profeti molto acrobati della rivoluzione, oggi farò da me, senza lezione” (Fabrizio De Andrè, “Il bombarolo”).

Che poi dici “Insulti al pubblico” ma di insulti, a filtrarli bene, a decostruirli, a scomporli, non ce ne sono particolarmente. Forse il pubblico, da sempre nell'ombra, affossato nella sua poltroncina, passivo e sonnecchiante, sicuramente silente, vuole essere scosso, voyeristicamente, cerca la mossa, richiede quel surplus di fantasia e creatività, mette alla prova chi sta sul palco, lo inneggia, lo sfida con il suo stare fermo immobile, in posa, braccia conserte, come a dire: “E ora?!”.

Ma, dopo aver visto la versione del testo di Peter Handke targata Chiara Caselli (con al suo fianco Lydia Giordano), una riflessione sulla quale sia oggi il rapporto tra scena e platea deve insulti-al-pubblico.jpgnecessariamente venire alla luce. E non certo perché il testo sia provocatorio e scioccante, tutt'altro. E' proprio il suo voler essere così dissacrante e di rottura con gli schemi (il testo è del '66 e ne risente tutto il peso del tempo passato addosso) che lo fa divenire manieristico, ancora più teatrale, se non proprio finto, falso, parodia. Sul palco, vuoto e sgombro, due personaggi ci dicono che non c'è niente, che non esiste niente, che non ci sarà spettacolo, le luci accese in sala a “responsabilizzare” la figura dello spettatore e toglierlo dalla sua ovatta comoda, non c'è scenografia, loro, lì sopra, non hanno niente da dirci, da comunicarci, da passarci.

E allora? Allora la finzione, univoca dal palco alla platea e non viceversa, è quella di voler abbattere le barriere, di stare tutti sulla stessa barca e nella stessa dimensione in un unicum che tutti ci avvolge e ci contiene. Niente di più falso perché non c'è interazione, non c'è scambio. Lo spettatore, ancora di più rispetto al canonico ascolto nel buio con gli occhi concentrati su chi si sta muovendo sul palcoscenico, è non solo passivo ma anche fantoccio, preso, smontato, mai chiamato in causa. Insomma una finta democratizzazione tra attori e platea, ma più in generale tra leader e folla, tra pulpito e chiesa, tra dittatore al balcone e piazza gremita, tra reggente alla finestra e moltitudine sottostante, tra comizio infervorato e calca, tra aquila che porta il cibo al nido e i suoi piccoli pigolanti con il becco aperto in attesa di una briciola. Cosa cerca il pubblico, dunque? Una carezza e uno schiaffo, forse, approfondimento e spostamento del pensiero, un salto con l'asta oltre sé.

IChiara-e-Lydia-n1.jpgl pubblico, entità fintamente collettiva ma semplice somma delle individualità che quella sera hanno deciso, autonomamente, di unirsi nel medesimo spazio e nello stesso tempo per approcciarsi all'identica visione, è usato, schiacciato nel suo ruolo, in maniera anche troppo benevola. Non viene messo alle strette (ma perché poi dovrebbe esserlo?), rimane nel suo guscio nell'attesa noiosa che qualcosa succeda. E' proprio questo uno dei cardini, e esplicitato fin dalle prime fasi, che niente accadrà se non stare lì, tutti insieme, a chiedersi (ma ormai il pubblico non è così neofita e imberbe, non è così primitivo e ingenuo, soprattutto, poi, quello che sceglie di assistere alla negazione stessa dello spettacolo sedendosi per vedere “Insulti al pubblico”) fin dove si spingeranno le due attrici sul boccascena, se diranno qualcosa di potente, corroborante, salvifico, devastante, irrinunciabile, vergognoso, politicamente scorretto, deflagrante, indicibile, irripetibile.
Niente di tutto questo. Poco più di mezz'ora e nessuno si è sentito spostato, nessuno ha mutato la sua idea del teatro e la divisione, scissione necessaria, tra chi sta portando avanti il suo canovaccio e chi invece ne è ignaro, rimane tangibile, netta. Infatti, alla fine, qualcuno applaude e qualcun altro riceve gli applausi, qualcuno ha messo in scena una serie di parole precostituite e architettate in versi e strofe, in andamenti e consecutio mentre altri se ne sono stati appollaiati e appisolati, in piena felice e solida sudditanza. Le domandone: “Che cosa siete?” e “Che cosa fate a sedere?” non scardinano l'essenza stessa del teatro dove c'è chi racconta al focolare e chi ascolta scaldandosi con quelle parole.

Il famoso, benedetto dialogo (ma chi lo cerca? Il pubblico?) non si instaura, per fortuna, altrimenti sarebbe scattato il dibattito. Non è assolutamente detto, anzi, che tutti abbiano qualcosa da dire in merito a qualsiasi argomento, o solamente qualcosa di intelligente da esprimere. Tutti non possono dire tutto. Uno non vale uno. Se doveva essere una battaglia con il pubblico, quest'ultimo si è scansato, ha deposto le armi, che non si era neanche portato nella sua borsetta, ha alzato le mani ancor prima del gong, non ha stretto i pugni e tutti se ne sono andati, borghesemente, senza sussulti né fragori, sommessamente, tristemente, capo chino. Il pubblico deve fare il pubblico, quello è il suo ordine di scuderia. Un testo vecchio che non punge più, se mai lo ha fatto. In teatro non può vigere la democrazia. Il teatro è dittatoriale.

Visto al Teatro Manzoni di Calenzano, il 10 marzo 2018

Tommaso Chimenti 12/03/2018