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“Inossidabile miele”: la poesia dell’ineffabile teatro fisico di Domenico Cucinotta

La parola “ineffabile” deriva da ineffabilis (in- ed ex fari, “dire fuori”). Riguarda il campo del non dicibile. Non dicibile, dunque non pronunciabile attraverso la parola. Dove non arriva la parola può però il corpo, la gestualità, l’espressione di un volto, un movimento inaspettato o calcolato, uno spostamento nello spazio. Una qualità: lento, veloce, alto, basso. In un ambiente carico dal punto di vista simbolico come la scena, pronto ad accogliere segni di qualsiasi tipo, ogni elemento viene inteso come codificabile ed è difatti produttore di senso, perché il teatro si basa su delle aspettative: c’è uno spettatore, e la radice latina di “spettatore” è la stessa di “aspettare”.
“Ineffabile” un gesto, una parola, un suono, può esserlo per il senso, ma non per i sensi. La vista, l’udito, sono gli organi direttamente chiamati in causa dall’esperienza teatrale. Persino un’espressione priva di significato nel nostro orizzonte inossidabilemiele3culturale come “Inossidabile miele”, allora, che è il titolo di uno spettacolo andato in scena al Teatro dell’Orologio di Roma all’interno della rassegna Inventaria, può caricarsi di un portato espressivo, che è lo spettatore a ritrovare, come quando ha di fronte ai suoi occhi una poesia scritta in una lingua a lui ignota. Non tenta di tradurla, non cerca il senso, ma prova a costruire un nuovo orizzonte linguistico, immaginando le sue evocazioni sonore.
Non conoscendo la lingua in cui sono scritti quei versi sbaglierà di certo, non potendo sapere qual è il suono generato da chi quelle lettere messe una di fila all’altra sarebbe in grado di pronunciarle correttamente. Allora il lettore, a digiuno di riferimenti, senza una bussola (che è uguale al nostro spettatore) compirà uno sforzo immaginativo per cercare un precipitato poetico non nel senso della parola, e quindi neppure nel contenuto, ma nella forma visiva del verso, in quell’ignoto tratteggio regalato dalla successione di grafemi. A parlare sono i silenzi, gli interstizi tra una parola e un’altra, o i capoversi.
Così è questo teatro, ineffabile, anche se “scritto” (e non “pronunciabile”), scritto, diretto e interpretato da Domenico Cucinotta del Teatro dei Naviganti.
Un teatro che non lascia scampo all’interpretazione omologante, non insegue la necessità di significare: il corpo è al servizio di una poesia senza parole, e quindi è di per sé oggetto poetico e sensibile, reattivo agli stimoli emanati dal suono, un mash-up di voci esotiche, sospiri, suoni acustici e rudimentali che attingono a una dimensione ancestrale. Suoni che conservano una sottile logica nel ritmo che il performer traduce, a livello visivo, con gesti potenzialmente significanti anche se decontestualizzati, spogliati di senso proprio dal meccanismo del loop, della reiterazione di bauschiana memoria. Pina Bausch è qui omaggiata anche nella citazione rimodellata di “The Man I Love” di Gershwin, nella famosa interpretazione di Lutz Förster in “Nelken” del Thanztheater Wuppertal: una danza che adottava una gestualità simbolica, che “diceva” il testo della canzone attraverso il linguaggio dei sordomuti, cioè attraverso la lingua di coloro che non potendo usare le parole si servono del corpo per comunicarle. La citazione è un pensiero dolce e ossessivo, che proprio sul finale forse viene a ricordarci che la poesia è tale perché nascosta dietro il velo dell’immediatamente comprensibile. Che la poesia si nasconde e trova riparo nella concordanza visivo-uditiva, nell’ascolto profondo di tutto il corpo.
Per esprimere non occorrono parole, ma corpi sensibili e occhi. Capaci di guardare oltre.

Renata Savo 03/06/2016

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