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Edipo re, Ifigenia in Tauride e Agamennone: il successo della stagione dell'INDA di Siracusa

Il Teatro Greco di Siracusa è un occhio spalancato sul cielo, un monito dolcissimo del nostro essere terreni, piccoli, di passaggio. È l’abbraccio dell’anima sul corpo, un andare a fondo alla ricerca dei nostri limiti, dei nostri peccati, delle colpe, dei vizi, delle debolezze che ci legano indissolubilmente alla nostra natura mortale. Per questo le tragedie che qui vengono messe in scena, annualmente, nella stagione della Fondazione INDA (57esima edizione quest’anno) sembrano non avere tempo, non avere spazio, ma essere presente e nel presente, avvicinando il pubblico sempre di più ad uno sguardo rinnovato sulla contemporaneità.inda5.jpeg
E riuscire a portare la tragedia all’essenza della modernità senza tradirne la classicità e, soprattutto, l’importanza del testo, sembra essere stata la giusta scelta fatta dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico e dal suo Sovraintendente Antonio Calbi, un lavoro di grande intelligenza e sensibilità che ha trovato una ulteriore chiave di volta nell’affidare i tre drammi portati in scena nella nuova stagione – “Agamennone” di Eschilo, “Edipo Re” di Sofocle, “Ifigenia in Tauride” di Euripide – a registi provenienti dall’opera, come Robert Carsen e Davide Livermore, o dalle idee innovative e ricche di contaminazioni e linguaggi diversificati, come Jacopo Gassmann. Una scelta vincente, dicevamo, che anche i numeri hanno premiato: sono state infatti oltre centoquarantamila le presenze registrate al Teatro Greco di Siracusa per la stagione appena conclusa (dal 17 maggio al 9 luglio).

Abbiamo avuto la possibilità di vedere le tre tragedie in altrettante serate consecutive, facendo così una vera immersione nella complessità di questi testi e nella diversità di sguardo dei diversi tragediografi e dei solchi da essi tracciati, a livello sociologico e storico, e abbiamo trovato degli ovvi fili rossi che segnano un percorso comune tra le opere, reggendo una intessitura di pensieri filosofici densi, di strutture intellettive universali: sono drammi di figli spezzati, figli dai destini infausti, condannati, prima o dopo, raramente salvi o salvati, in fuga, sempre; sono drammi di madri punite, smarrite, spesso strateghe visionarie, madri vittime e carnefici al tempo stesso, dilaniate e mosse da sentimenti di una intensità feroce; sono drammi di viaggiatori, di anime inquiete e nomadi avvezze alla ricerca costante delle verità, del superamento del limite e della conoscenza.

Edipo re”, per la regia di Robert Carsen, è il personaggio che, tra i tre protagonisti sopracitati, raccoglie e incarna perfettamente, a nostro avviso, tutti questi elementi, in un dramma che proprio nella ricerca della conoscenza e della verità determina la sorte preannunciata del re.
La storia inda3.jpegè nota a livello universale: Edipo, divenuto re di Tebe dopo aver sconfitto la Sfinge, che inchiodava la città greca a un destino di sangue e morte, rispondendo al suo enigma, si trova costretto, nel corso di poco tempo, a conoscere l’orrenda verità sul suo passato o sulla sua natura di uomo maledetto dagli dèi andando incontro all’epilogo tragico di esilio e cecità.
La tragedia di Sofocle è conosciuta da 2400 anni non solo perché considerata la sua opera più riuscita, il suo capolavoro, ma perché è l’esempio più emblematico della struttura e dei meccanismi della tragedia greca. Carsen raccoglie questa eredità millenaria e la restituisce sulla scena del Teatro Greco lavorando per sottrazione, riducendo al minimo qualsiasi tipo di eccesso, di rimando forzato, di distrazione estetica per restituire al pubblico la potenza della storia, del testo e un Edipo umano e vicino. In questa scelta il regista canadese rispetta sia l’aspetto di grande modernità dell’opera che il suo essere corale; l’uso del Coro, infatti, è essenziale, potente, costruito magistralmente per esaltare la parola e, al tempo stesso, la resa immaginifica del dramma: ci sono alcune immagini che resteranno nella nostra memoria a lungo, come l’entrata in scena del Coro dei Tebani, nell’apertura del Prologo, in un lungo corteo funebre (sono circa 80 gli allievi coinvolti della scuola del Dramma Antico) con in braccio i resti (essenziale e semplice la scelta di impersonare il corpo con una veste nera) dei figli, dei concittadini morti a causa della pestilenza che sta distruggendo la città. Siamo in una Tebe dilaniata dalla peste che, difficile non pensarci, ci riporta (di nuovo) alla contemporaneità e agli ultimi due anni, e alle migliaia di vittime per il Covid-19.
La scena è sovrastata da una grande inda9.jpegscalinata in calcestruzzo (scenografia di Radu Boruzescu), un monolite moderno che immediatamente contestualizza lo spazio in cui le vicende avvengono, sia esterno che interno, dentro e fuori dal palazzo, e anche una duplicità, una dualità metaforica, che sta alla base dell’Edipo: la scala come metafora tridimensionale dello spazio diventa anche metafora perfetta dell’esistenza del protagonista, ma anche dell’umanità tutta, dove l’ascensione non riguarda solo l’entrare nel palazzo reale ma anche un’aspirazione, un tentativo di elevazione sia in termini sociali che di potere; al contrario, la piazza, il popolo, che non possono salire quei gradini, attraggono, fanno dirigere, l’attenzione e l’energia verso il basso, a contatto con la morte, verso una discesa inevitabile, la stessa che affronterà Edipo sul finale.
Le due dimensioni, verticale-spirituale e orizzontale-materica, ben delineano la progressione narrativa sulla scena, con i movimenti che si sviluppano in direzioni nette, distinte, e si inseriscono anche in quei meccanismi di duplicità dell’opera, come detto, di cui la versione di Carsen è carica. L’altro è certamente l’annullamento dei colori e l’uso di toni netti e simbolici: il nero è imperante, catalizzante, tutti i personaggi, compreso il Coro, indossano abiti scuri (e moderni, di Luis Carvalho), sottolineando così il senso di morte e di logoramento che affligge sia il popolo di Tebe che il destino inevitabile del suo re. Solo Giocasta è vestita di bianco, scelta saggia e di grande impatto che va a rafforzare una purezza quasi estetica in un personaggio che, di fatto, sta all’origine della colpa.
Lo spettacolo inda8.jpegha un ritmo proprio del teatro contemporaneo senza snaturare la natura della tragedia greca, anzi ne esalta la struttura e le dinamiche grazie a questa essenzialità concettuale e scenica. Edipo è un uomo giusto, razionale e illuminato che difficilmente si piega (e crede) a ciò che gli dèi hanno scritto per lui; è un uomo condannato, maledetto per certi versi, ma che cerca di trovare una soluzione alla volontà avversa delle divinità attraverso la propria responsabilità, l’uso della ragione e della conoscenza e proprio in questo sta la sua grande modernità.
Si torna all’origine del teatro con l’Edipo di Carsen (merito anche della traduzione di Francesco Morosi), un teatro della parola e dell’attore: il lavoro preciso ed equilibrato del regista sembra infatti cucito addosso agli incredibili interpreti presenti (scelti proprio da Carsen) che, episodio dopo episodio, battuta dopo battuta, allargano lentamente la ferita invisibile del re fino a spalancarla alla violenta conoscenza della verità; su tutti: Maddalena Crippa una elevata e delicata Giocasta, perfetta in questo ruolo controverso e doloroso; Graziano Piazza indimenticabile Tiresia, la sua presenza in scena catalizza l’energia del dramma e il cambio emozionale in Edipo e nel pubblico; Rosario Tedesco, Capo Coro muscolare e dinamico; Paolo Mazzarelli un Creonte contemporaneo (l’uso della valigetta 24 ore ne rende un’immagine da manager internazionale) e solido.inda10.jpeg
È un gigantesco Giuseppe Sartori, però, a dare voce, corpo e anima al protagonista, un personaggio che indossa, interpreta, rende proprio con equilibrio e potenza, sia interpretativa che fisica. Il suo Edipo è un antieroe moderno, si rivolge a noi sin da subito, siamo i figli di quella Tebe stremata e sofferente, intrisa di morte e drammaticità a cui vuole dare una spiegazione, una soluzione, ignorando però la natura dei fatti; con lui affrontiamo questo passaggio attraverso la conoscenza, ci sentiamo siamo solidali e partecipi alla sua presa di consapevolezza e di responsabilità a questo processo di svelamento e di spoliazione verso l’inevitabile epilogo. Il suo monologo finale, dove la sua nudità monolitica è il simbolo del cambiamento avvenuto, del compimento del dramma, è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti dell’intera opera.
“(…) Perciò guardando alla fine di Edipo, nessun mortale ritieni felice, prima che varchi il confine della vita senza aver sofferto alcun male”.

C’è un nodo che congiunge “Edipo re” a “Ifigenia in Tauride” ed è la natura dei protagonisti nel loro essere figli non voluti, sacrificati. Ma se in Edipo il climax – la conoscenza della verità – rappresenta un cambiamento violento e doloroso, in Ifigenia – l’arrivo del fratello Oreste – sembra quasi essere una opportunità. Non ci allontaniamo però dal tema della morte neanche nell’opera di Euripide che ne è pervasa: una morte apparente – quella di Ifigenia, appunto – scatena una serie di morti reali che peseranno come una maledizione (l’ira delle Erinni) sulla sua famiglia (altro punto di contatto con Edipo); Ifigenia, sottratta dalla fine imminente dalla dea Artemide, ne diventa la sacerdotessa nel tempio in Tauride dove è costretta a eseguire il sacrificio rituale di ogni straniero catturato in terra turca, stringendo con la morte quasi un patto senza fine.
A portare inda12.jpegin scena questa escape tragedy – come viene definita dalla critica– è stato Jacopo Gassmann (uno dei registi più giovani a lavorare nelle stagioni del Dramma Antico; sarà in scena anche a Pompei, a metà luglio, e a Verona a settembre) dando una lettura attenta e rispettosa delle intenzioni del tragediografo, intellettualistica e raffinata, precisa e creativa nel sottolineare e approfondire gli aspetti di imprevedibilità, contraddizione e inquietudine che caratterizzano il testo, il tutto con un taglio estremamente attuale e, per certi versi, anche cinematografico: l’uso delle luci (Gianni Staropoli) e delle immagini video, da apparenti elementi extra diegetici, diventano elementi fondamentali per i contenuti e i tempi della narrazione, capaci di sottolineare e rafforzare anche gli stati d’animo dei personaggi in maniera immediata. È una “tragedia della percezione”, come ne parla lo stesso regista, ambientata in un luogo ambiguo e sfuggente, intrisa di paradossi, inganni e dubbi sulla realtà e sulla natura degli dèi, che ci invita a riflettere sulla donna e sulle illusioni degli esseri umani e sulla loro natura violenta, una riflessione filosofica sulla vicenda e sul Caso che governa la vita dell’uomo o sembra farlo.
Euripide ci pone di fronte a una realtà complessa, spesso duplice e contraddittoria e a personaggi altrettanto articolati: Ifigenia (una Anna Della Rosa in stato di grazia, aulica e dalla presenza scenica potente, ha un vero fuoco sacro) ci introduce alle vicende che l’hanno portata in Tauride, parla di sé come se fosse morta mentre in realtà è stata salvata da Artemide prima di essere sacrificata, è legata alla sua terra di origine da sentimenti contrastanti di nostalgia e rabbia, ma quando arriva Oreste (Ivan Aloisio forte e ben centrato, rende con onestà il personaggio determinato e al tempo inda13.jpegstesso preda della follia) tutto improvvisamente cambia. Oreste insieme a Pilade (un ottimo Massimo Nicolini) fugge da Argo spinto dalle parole del dio Apollo per sottrarre la statua della dea Artemide nel suo tempio in una terra così lontana, fugge perseguitato dalla furia delle Erinni, inconsapevole e folle, dopo aver vendicato l’uccisione del padre Agamennone per mano della madre Clitennestra, uccidendola a sua volta. Sembra un destino già scritto, il loro, ma è nel loro incontro che l’energia della tragedia vira verso un'altra direzione, verso un finale di liberazione (forse) e, nell’aiuto reciproco dei due fratelli, di salvezza e rappacificazione.
Nella seconda parte l’opera cambia anche nei toni, l’ingresso di Rosario Tedesco (messaggero del Re Toante) ne accentua l’andamento ironico e a tratti grottesco: è la caratterizzazione del suo personaggio, infatti, che sottolinea la beffa, l’oltraggio, fatta ai danni del re dalla sacerdotessa insieme ai due stranieri (il progetto della fuga è una ordita macchineria).
Gassmann sembra aver fatto propria la complessità di “Ifigenia in Tauride”, essersi addentrato con grande profondità e sapienza in questo testo così misterioso e moderno, una ilarotragedia dove i protagonisti fuggono ma nessuno di loro muore. Sono molti gli elementi che rispettano questo modus operandi e inda14.jpegtale laboriosità concettuale, come le scene di Gregorio Zurla, con il tempio-monolite bianco che sovrasta il tutto, composto dalle grandi vetrate che, in un gioco continuo di aperture e rimandi visivi, rappresenta il fulcro che tutto attrae, il cuore e il motore delle azioni di tutti i personaggi, il mondo dal quale tutto parte e si muove, grazie anche al fossato/trincea/buca dell’orchestra che rappresenta ingresso e protezione; attorno numerose teche rettangolari in cui sono conservati gli oggetti simbolici dell’opera (il corpo della cerva, gli scheletri, una veste funebre, una lancia, una testa di toro, un agnello pronto ad essere sacrificato, un grammofono, una corona) in una sorta di museo dell’orrore e del passato dove tutta la vita di Ifigenia viene messa in mostra e conservata. Anche i costumi (Gianluca Sbicca) si inseriscono perfettamente in questa linea narrativa: il nero e i toni scuri sono dominanti, sottolineando i tratti oscuri del dramma e di queste vite disperate; Ifigenia (l’unica a vestire anche in bianco, scelta di grande impatto) e il Coro delle schiave (anche qui il Coro non solo è ben riuscito e calibrato, con dieci magnifiche interpreti, ma ha potenza e centralità in tutta l’opera) hanno vesti legate alla classicità che contestualizzano immediatamente con eleganza il loro ruolo di ancelle della dea e contrastano (integrandosi) con lo stile da viaggiatore-argonauta dei due greci e quello da operaio-chimico per i mandriani tauri; un lavoro di grande simbolismo. Importante sottolineare anche il progetto sonoro di G.U.P. Alcaro (il migliore, calibrato e pensato, nel complesso dei tre drammi visti) che in una costante intessitura di suoni e temi, non sovrasta mai la parola ma la enfatizza e la accompagna, diventando un elemento narrativo totale.
Una dei grandi meriti di Jacopo Gassmann, a nostro avviso, è quello di aver saputo rendere materia viva il sogno che sembra uscire dalla mente e dalle parole di Ifigenia, un sogno popolato dai personaggi dell’opera che sul finale (molto emblematico) sembrano riappropriarsi di una dimensione che è esattamente la nostra: è sogno o realtà? Euripide non ci ha dato la risposta e a ognuno di noi è data la possibilità di cercare la propria.

Torniamo alla regia lirica per parlare di “Agamennone”, diretto da Davide Livermore, il quale dopo “Coefore” e “Eumenidi”, torna a Siracusa "chiudendo" così la sua “Orestea”.
Sempre scelte di grande impatto, quelle del regista torinese, con la scena del Teatro Greco carica di elementi e rimandi estetici che portano l’opera a muoversi costantemente sul crinale tra realtà e finzione. inda2.jpegUno specchio lungo 27 metri riflette l’immagine del pubblico e degli attori facendo così interagire gli uni con gli altri in maniera metaforica. Ci sentiamo chiamati in scena, dentro ad essa, ma anche a interrogarci costantemente sui temi che quest’opera naturalmente trascina: la vendetta, la natura violenta del genere umano, l’odio, la malignità. Tutti responsabili, tutti presenti, di fronte alla violenza che viene messa in atto (siamo la pòlis). Se uno specchio raddoppia l’immagine degli attori e del pubblico, un altro a terra sembra voler riflettere la volontà del cielo su di essa, quindi la volontà degli dèi sugli uomini; se quello verticale che ci chiama in causa sembra l’occhio che guarda al popolo, che lo controlla e lo giudica, quello orizzontale sembra richiamare la coscienza, l’anima - sporca, graffiata, visionaria, maledetta - di chi resta a terra.
Ci sono inda4.jpegmolteplici richiami cinematografici in questa versione di Livermore, Kubrick tra tutti (diverse le citazioni da "Shining", le due gemelle morte qui Ifigenie che appaiono costantemente nei pensieri della madre; la scena del pugnale) ma anche Lubitsch, Lang, una tradizione espressionistica tedesca, mitteleuropea che sembra essere la base dell’impianto scenico anche a livello estetico; non siamo ad Argo, oltre 2000 anni fa, ma potremmo essere a Berlino negli anni ’30, in una non-ideale ma perfetta società decadente e tutto quello che ruota e si muove sul palco ce lo ricorda: il discorso dal pulpito di Agamennone, effetto “Cinema Luce”; i vecchi generali, simbolo del potere di un tempo, in disfacimento tra sanatorio e infermiere (il coro) violente; i costumi di Gianluca Falaschi, estremamente precisi, contestualizzanti, determinanti all’inquadramento extra-temporale della narrazione; le scene (curate dallo stesso Livermore), con il grammofono, i divani, il mobile bar e i due pianoforti (importante la scelta di far musicare dal vivo l’opera, eccellenti Diego Mingolla e Stefania Visalli).
Tutto sembra doppio, quindi, in questa scena densa di simboli, carica di colori, rimandi e sensi, dove il Coro è intriso dello stesso furore e determinazione della regina (significativa l’interpretazione di Gaia Aprea, corifea vibrante e tessitrice di trame) prendendone però le distanze, dove duplice diventa ciò che vediamo ma anche il senso del testo; dove le apparenze, i fantasmi, le voci della coscienza diventano la mano che arma Clitennestra nella sua furia vendicativa, che dà le parole a Cassandra durante i suoi spasmi, le sue visioni.
I colori, dicevamo: Livermore fa una scelta significativa affidando al rosso l’incedere dell’opera, attraverso le luci, il tappeto di fiori (sembrano cuori) al ritorno in patria di Agamennone dopo la guerra inda7.jpegdi troia, il vestito di Clitennestra ma soprattutto la sua anima, che non si vede, ma la immaginiamo porpora pulsante. Interpretata da una memorabile Laura Marinoni, una Marlene Dietrich degli anni 2000, una Rita Hayworth contemporanea, è lei a reggere tutta la narrazione, centrale perché centrale è il personaggio e le conseguenze delle sue azioni che ricadranno a catena sui suoi figli (Oreste in primis) e sul suo popolo, madre straziata (non ha mai perdonato al marito il sacrificio della figlia Ifigenia), moglie furiosa, amante appassionata (Egisto è suo complice e compagno), ci destabilizza, ci scuote, ci divide: da che parte stiamo in questa opera senza giustizia?
Sonoinda11.jpeg le donne a infondere aria di rivoluzione e tormento sulla scena (ricordiamo comunque un visionario Sax Nicosia/Agamennone): insieme a Aprea e Marinoni non possiamo non citare Linda Gennai perfetta nei panni di una Cassandra tormentata, strappata dalla sua terra, profetessa inascoltata, che si fa corpo vivo e memoria di una guerra durata decenni, di violenze, di imminenti sciagure; menzione anche per la Sentinella, Maria Grazia Solano, che apre e chiude, in un ideale cerchio narrativo, l’opera (emozionante la sua interpretazione finale di “Glory Box” dei Portishead, canzone fortemente simbolica rispetto al senso di tutto il dramma).
È una scommessa vinta, a nostro avviso, quella lanciata da Livermore nello sperimentare nuove forme espressive in relazione – e nel rispetto - della classicità della tragedia greca, una scommessa frutto di un lavoro immaginifico e profondamente artistico che, seppur tenda certamente in alcuni momenti a un eccesso di rimandi, simboli, elementi, suoni, non tradisce mai la letteratura di Eschilo.

I'm so tired of playing
Playing with this bow and arrow
Gonna give my heart away
Leave it to the other girls to play
For I've been a temptress too long
Just...
Give me a reason to love you
Give me a reason to be a woman
I just wanna be a woman
(da “Glory Box”).

Giulia Focardi 12/07/2022

Ph: Michele Pantano, Maria Pia Ballarino

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