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In vetrina piccoli tocchi di pianoforte

TERNI - Il pianista sull’oceano non ha il mare sotto di sé ma lo crea. Attorno a sé, come scialuppe di salvataggio, come ancore a argani, come mozzi a scrutare un istmo di terra brulla all’orizzonte, letti, brandine, materassi. L’aria sembra da accampamento in questo negozio sfitto di due locali nel centro di Terni, le grandi vetrate che danno sulla strada dove passanti ignari buttano un occhio, spiano, alcuni tirano dritto incuriositi ma timidi, altri mettono la mano alla porta e spingono piano, incerti, gli occhi spauriti nel vedere questa cashba di coperte e cuscini e un suono idilliaco, celestiale che colma e protegge, satura gli interstizi nel cemento, tra le mura bianche sporche di grigio, di matita, di segni, numeri e lettere.
Siamo sfollati attorno al falò della musica che ci nutre. Un evento, vicino alle estremità del Guinness dei Primati: Marino Formenti e il suo pianoforte suonano in solitaria da un sabato all’altro (al Festival di Terni da sabato 17 a sabato 24), dalle 10 della mattina alle 23 della sera, in loop continuo con pochissime pause. La curiosità dei passanti che si fermano: due ciclisti, sudati, caschetto colorato, maglie attillate e scarpette chiodate, si affacciano, entrano in punta di piedi. Tutto è rarefatto. Piano di nome e di fatto. Piccoli tocchi leggeri sui tasti. Si sente caldo dei neri, si sente la carezza dei bianchi. Un Alfonsi a coda, la scritta dorata, come le rotelle a chiudere le gambe slanciate. Formenti è in mise completamente formenti1noir: camicia, pantaloni, scarpe lucidissime, occhiali spessi come il primo Gino Paoli d’annata. Mentre lui suona in continuazione, tu puoi rilassarti. C’è chi si pettina, chi dorme, chi legge, chi si appunta qualcosa, un’immagine, una frase, un verso, una poesia. Qui la memoria torna a bussare, pressa comodamente, si infila, si infiltra in queste due stanze vuote riempite dalle note e dai piedi distesi.
Siamo tutti in vetrina, chi suona e chi ascolta bivaccato. Sulle pareti, scritte con la matita lapis direttamente dall’esecutore alla fine di ogni brano, gli orari e le arie o le canzoni o le opere appena eseguite. C’è la “Sarabanda” di Bach, “Mi sono innamorato di te” di Tenco. Non parlate al pianista. Non sparate sul pianista. Da John Cage con “In a landscape” a Brian Eno con “By this river”, da Froberger con “Reditation sur ma mort” a Feldman con “Palais de mari”. Essenza. Subilime. Vige il silenzio, senza che questo sia una regola imposta, il vuoto, l’orecchio annulla gli altri sensi, soffocandoli. Il pianista si riposa un attimo, gli occhi chiusi, le palpebre che cercano pulviscoli e ispirazione. Poi rinvigorito riprende, riparte, si riaccende. E’ una grazia, una messa stare qui, le dita sicure che premono morbide i parallelepipedi. Siamo in un tempo sospeso, tra le righe del pentagramma, noi siamo i piccoli pallini neri disegnati tra queste linee che a volte sembrano gabbie e filo spinato altre, come oggi, sono soltanto libertà. Un tempo intimo, individuale e espropriato al tempo là fuori, quello sociale che scorre con altre logiche, con altre dinamiche, quello comunitario. Da Chase con “Shukarise” a John Lennon con “Oh my love”, da D’Anglebert con “Praludium”.
E non vorresti venire mai via. Non ti alzeresti mai da questo giaciglio. Sdraiato con i tuoi pensieri, sospetti, lacrime, colpi di tosse repressi, imbarazzi, villanie, sospiri, ascessi, colpi di testa, fili di barba. Siamo dentro la tenda del “Tè nel deserto”. A ciclo continuo, come in una dolce lavatrice, schiaffeggiati dalle note. Perdi il conto dei minuti che risuonano là fuori nella via. Ti sei sottratto allo scorrere. E poi Ederlezi. Qui tutto è fluido, nuvolare, pannoso. E’ un adagio a riscoprire, sentire, sentirsi. Ci suona addosso, senza farci male. Le note scendono a valle, si fanno largo, senza agitarsi, senza sgomitare, senza aggressività. Da Frescobaldi “Toccata n.2” all’inno zingaro “Djelem Djelem”. Si sta lunghi, chi le braccia conserte, chi si è tolto le scarpe; una ragazza sfoglia Erri De Luca, “Il contrario di uno”. Un concerto privato, per carbonari alla luce del sole, in mezzo alla pornografia della strada dove gli occhi passano veloci, lascivi a consumare l’immobilismo che non comprendono da fuori, nell’insonorizzazione, nell’ovattatura impercepibile, impercettibile.
Formenti2Questo è un limbo, un’attitudine, un’altitudine, una vertigine calma, un’onda placida, surfiamo come abbandonati su una spiaggia, micro tartarughe a scavare nel nostro passato. Ecco Satie con “Gnossienne n.2”. E’ una ricreazione, adepti ad ascoltare queste variazioni che toccano zone lontane nell’ego di ognuno dei fortunati qui assiepati. Nell’aria sta una cappa tormentata e asciutta, inquieta che si placa, ci culla. I tasti pigiati come acini nei tini. Rimaniamo in apnea, in attesa, discepoli adoranti schivi di questi gesti semplici che aprono le porte dell’infinito. Siamo e non siamo. Siamo ma abbiamo deciso di isolarci, di fermarci. Quel che resta del giorno è uno spartito. Un accompagnamento di supporto, carezzevole ma senza indulgenze, senza perdono. Il fuori, l’oltre qui, l’al di là da queste vetrine viene relativizzato, non assume più i contorni di importanza.
Come ad Amsterdam siamo in vetrina, siamo in peep show. Andarsene è un piccolo lutto, ma prima o poi dobbiamo abbandonare la nave che veleggia armonica. Le cellule sono state rigenerate dalla bellezza, l’ossigeno viaggia nelle vene, la testa è sgombra, limpida. Piano piano, il piano ha fatto pianura dentro noi qui a terra, ha azzerato i nostri piani, spianandoci la strada, piantando nuovi rami freschi. Il solo respiro sembra far rumore. E non abbiamo bisogno di parole. Sembriamo sul ponte di una nave, la traversata notturna, zaini a fianco, borse a scaldare.
Si crea una piccola comunità silente, che non si conosce né si conoscerà ma che ha diviso e condiviso questa sottile magia lenta, equa e solidale. Siamo più pieni adesso, e paradossalmente più leggeri. Non esiste più il tempo. C’è pudore nell’esserci. I suoi occhi sfuggono. Ti puoi addormentare, nessuno qui ti farà del male, qui sei al sicuro, dentro la pancia della mamma, nella gomma piuma. Il nostromo pizzica il suo galeone, i remi sono i polpastrelli, i mari da solcare sono dentro di noi. Take your time. I movimenti al rallentatore, il cuore che pulsa ad un’altra velocità. Pace. Una soluzione ai ritmi frenetici della città. E non avere più un corpo. Un volteggiare. Un volare. Non avere più peso. Finalmente senza forze. Inutile resistere.

Tommaso Chimenti 25/09/2016

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