Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 686

In scena per “Inventaria” Andirivieni, il maldestro tentativo di salvarmi: carcerieri di sé stessi sui pavimenti della nostra disfatta

“Le grandi tragedie si affrontano. Sono le piccole cose di ogni giorno, i minuscoli ingranaggi del quotidiano che ci annientano”, chiusi nelle nostre gabbie domestiche moriamo lentamente, ci imbruttiamo allo specchio, mordicchiamo le coperte durante le notti in cui non sappiamo dormire infastiditi dai rumori di casa, quella casa che non ci appartiene poi così tanto. Tentiamo di evadere dal nostro carcere di cui custodiamo gelosamente le chiavi; partiamo via, lontano da tutto, per ritornare con la coda tra le gambe ed un sorriso scarno, deluso, morto tra le braccia di un 'amore che non c'è più, sgretolati tra le macerie che portiamo nel cuore. Ci si aggroviglia lo stomaco in un turbinio di domande che non trovano risposte, non trovano soluzione neanche in Andirivieni, il maldestro tentativo di salvarmi, in scena al teatro Studio Uno il 19 maggio 2018, per l'ottava edizione del concorso dei teatri Off, Inventaria33020222 10216331466869416 3633523468919635968 n

Atto unico per un'attrice sola, Nina Martorana, che con delicatezza, in punta di piedi, restituisce al pubblico l'attesa, la disfatta, i volti corrugati dal tempo e dal dolore che dilania a piccole dosi, come fosse regolato al suo interno da un sadico contagocce immaginario. Avvolta in una camicia da notte color pastello, Nina dà voce ad un testo inedito ed originale che non ha la pretesa di raccontarci la guerra, la politica, le catastrofi ambientali o i terremoti: no. Ha piuttosto bisogno di descrivere le stanze della nostra memoria, del nostro presente, delle piccolissime delusioni quotidiane che compongono un mosaico ben preciso. I tempi di scena, scanditi in capitoli narrativi, possono sembrare all'apparenza unilaterali, partoriti dalla penna notevole della giovanissima drammaturga Elena D'Angelo, ma, in verità, mettono a segno un pugno in pancia ben definito, condivisibile, universale. Nessuno in sala né esce vittorioso o illeso. La regia di Elisabetta Lapadula richiama l'immaginario faucaultiano del Panoptycon, carcere ideale in cui il sorvegliante diviene fantasma ed il prigioniero non conosce l'entità del proprio carceriere, né tanto meno la presenza reale o meno dello stesso. In questo simbolico paragone risiede la chiave registica e drammaturgica di Andirivieni: lo scorrere del nostro tempo e del tempo di chi ci circonda si tramuta in una gabbia senza sbocchi o vie d'uscita, poiché noi stessi ne siamo vittime e carnefici. Utilizzare la parola stessa andirivieni sta a significare un via vai fisico e psichico incrociati a metà strada, fusi inevitabilmente in un solo corpo. L'atto unico utilizza come strumento comunicativo le due figure genitoriali convogliate in un vortice di claustrofobia e fastidiosa rassegnazione. Non vi è rabbia, non vi è foga. Una metafora ben riuscita che pone l'accento su di una ricerca spasmodica, su di una soluzione che tarda ad arrivare, che forse non può esserci.
“Per non sprecare il boccone, sprechi la vita” in un universo microcosmico decadente, ostile e dolorante in cui la nicchia che ci siamo scavati a mani nude diviene motivo di certezze, le uniche che ci restano. Il silenzio scardina, eppure la nostra protagonista vuole fare l'amore con quel silenzio, rivolgendo al pubblico una domanda retorica ma non didascalica: “Giorno dopo giorno come fate a coprire il vuoto con il vociare della Tv?”. Il vuoto resta vuoto, la Tv resta accesa, la nostra prigione sempre più stretta.

20/5/2018 Giorgia Groccia

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM