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La parola a Maria Maddalena: lo spettacolo di Roberta Calandra al Cometa Off

La figura di Maria Maddalena è da sempre vittima di equivoci fuorvianti: avvolta da una nube di mistero che sfuma i confini tra storia e leggenda, è stata raffigurata, soprattutto dal Cinquecento in avanti, come la peccatrice penitente per antonomasia, sospesa in un equilibrio ambivalente tra sacro e profano. Ma ci sono tradizioni, come quelle dei vangeli apocrifi e gnostici, che ci restituiscono una versione ben diversa della storia: Maddalena sarebbe stata la più fedele seguace di Cristo, presente alla sua crocifissione e alla sua sepoltura, prima testimone della sua resurrezione e annunciatrice del lieto evento agli apostoli. In un tempo in cui le donne non erano padrone nemmeno di loro stesse, Cristo avrebbe affidato proprio a Maddalena il messaggio più prezioso, il mistero della resurrezione, rendendola di fatto testimone prediletta e «apostola degli apostoli». È questa l’«ipotesi» che Roberta Calandra ha materializzato in un testo pieno di suggestioni poetiche e di riferimenti letterari, religiosi ed esoterici, dove il messaggio cristiano convive con i misteri di Iside e i richiami a figure leggendarie come la Regina di Saba.

In principio era il silenzio. Un’ipotesi apocrifa per il Vangelo di Maria Maddalena, in scena dal 25 febbraio al 1° marzo al Teatro Cometa Off, per la ammaliante regia di Antonio Serrano, si configura come un racconto a più livelli. C’è innanzitutto la storia di un passaggio di testimone: Cristo, che Myriam, alias Maddalena, chiama rabbi (lett. “mio maestro”), è sul punto di abbandonare la vita terrena e ha scelto Myriam come erede del suo lascito spirituale, affinché diffonda il Verbo facendosene mediatrice privilegiata. Myriam è una donna piena di vita e di spirito d’indipendenza, una donna cha sa ridere e amare senza vergogna; ma la richiesta di lasciare andare il suo amato le sembra inconcepibile, soprattutto perché separarsi da lui significa accettare di vederlo morire in croce. E allora si oppone, lo contesta, scruta - per capirle fino in fondo - le ragioni della sua scelta, prima che arrivi l’alba e l’addio si faccia definitivo.
Così, lungo i quattordici dialoghi (come le stazioni della Via Crucis) che scandiscono lo spettacolo, i bravissimi e intensi Valentina Ghetti e Mauro Racanati mettono in scena un conflitto che va ben oltre la filologia evangelica: sul palco si fronteggiano i due principi opposti e complementari del maschile e del femminile, che lungi dal costituire un cinico gioco al massacro intessono una danza finalizzata alla costruzione di un significato più ampio, di una più alta unità («Io e te siamo uno», dice Cristo a Myriam). A ritmare il confronto verbale intervengono momenti di più intima e leggera giocosità: l’allenamento di Myriam, ad esempio, che deve prepararsi al compito più difficile che le potesse toccare in sorte, e si ritrova a tirare colpi di boxe al suo compagno e a esercitarsi con la corda. La scenografia minimale e sottrattiva, il pavimento sonoro rappresentato dai suoni di una stazione ferroviaria, e perfino i costumi, sospesi tra un’atmosfera orientaleggiante e uno stile gipsy, rendono fluidi e potenzialmente attuali i loro ruoli: Cristo potrebbe non essere Cristo, ma un estroso saltimbanco ansioso d’inseguire un sogno; e Myriam potrebbe non essere Maddalena, ma una donna qualsiasi, innamorata e testarda, che non vuole rinunciare al proprio uomo. Se il contesto è ibrido, il contenuto profondo della rappresentazione emerge con luminosa solidità: «Nessuno può essere nell’altro se manca a se stesso», ricorda Cristo a Myriam, e la invita a cessare la lotta e a vivere in libertà.

La rivoluzione di Cristo comincia dal silenzio, dall’ascolto profondo dell’altro e di noi stessi, anche delle parti più oscure e impenetrabili, che temiamo e disprezziamo. La sfida è quella di amare non solo l’altro, ma anche noi stessi: «Chi è diviso resta nel buio», ripete Cristo, invitando Myriam e gli spettatori a risolvere la divisione con l’amore, che dev’essere nutrimento, non riempimento di una mancanza. Cristo e Maddalena si fanno dunque portavoce di una necessaria ricomposizione degli opposti, la stessa che Jung immaginava come un “matrimonio” interiore tra Animus e Anima, indicanti rispettivamente la componente maschile nella donna e quella femminile nell’uomo. Si fa strada allora una spiritualità sincretistica, che riscopre il regno di Dio a partire dal cuore dell’uomo: è il corpo, grande rimosso collettivo della dottrina cattolica, a farsi tempio di questa integrazione. «Loro mi volevano maschio», dice Myriam degli altri apostoli. E d’altronde la presenza di una donna tra i discepoli del Cristo non è mai stata ben digerita. Eppure è proprio una donna, che raccoglie fragilità e coraggio, sensibilità e accoglienza, a potersi forse rivolgere agli «uomini dal cuore indurito» senza che le sue parole cadano nel vuoto.

Maria Giulia Petrini 29/02/2020

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