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In memoria di Anna, la Borsa Pancirolli: analisi di un teatro che verrà

MILANO – Il teatro non è riuscito a salvare Anna. Il teatro però sta salvando il suo ricordo, la sua voglia di vivere, il suo desiderio di imparare, apprendere, la sua curiosità nel vedere, nell'ascoltare, nel capire. Perché il teatro è parola, è memoria, è vicinanza, è insieme, è sentirsi parte, è abbraccio e dolore. In suo onore, da dieci edizioni, le prime annuali adesso biennale, i genitori hanno istituito la “Borsa teatrale Anna Pancirolli” con un premio di produzione finale per compagnie e attori under 35 di 5.000 euro, una buona spinta in questo Mare Magnum di possibilità esigue, scarsa considerazione, cachet tendenti allo zero, spazi da affittare per provare, che il teatro italiano offre oggi. Ottanta i progetti arrivati, ventidue quelli selezionati per le eliminatorie che si sono svolte al centro Barrio's (13, 18, 19, 20 marzo) tra graffiti coloratissimi di writer e la grande costruzione di metallo come fungo a riparare la piazza di colonne e mattoni dove sfrecciano skaters rapidi e futuristi e hip hop ad alto volume, dove le lingue si mescolano tra palazzi dalle ombre gravose e piccoli alberelli che tentano con tutte le loro forze di resistere, emergere, farcela.
Venti minuti per gruppo, visionati da Dino Pancirolli, padre di Anna, motore e anima del premio e grande conoscitore del teatro milanese, Luca Monti, professore universitario, Fausto Lazzari, Erika Urban, Marzia Loriga, Wauder Garrambone, operatori in ambito teatrale, prima della finale del 29 maggio. Molti difetti, tante imperfezioni, a tratti approssimazione e una grande differenza di preparazione da parte di chi proveniva da scuole accreditate rispetto a vari corsi, workshop e seminari che affollano il panorama nazionale. L'autodidattismo, l'autoformazione è la vera piaga del teatro nostrano; chiunque può elevarsi a docente e insegnante, aprire il suo spazio, istituire le proprie lezioni. I corsi di teatro servono per la maggior parte a chi li conduce e non a chi li segue.
Dopo aver visionato i ventidue finalisti l'opinione sul teatro del futuro non è così rosea, l'ottimismo s'è rassegnato: troppi attori, troppe compagnie, troppi spazi non danno nuove possibilità con una coperta sempre più corta e una fetta da spartirsi sempre più fatta di briciole, ma inflazionano un ambiente già deluso, illuso, depresso, intasano i meccanismi di selezione e scelta molte volte casuali o amicali più che meritocratici. Ci ha colpito “L'uomo con la canestra in mano” di Marco Celli e Francesco Colombo che, seppur nella ricerca forzata del sarcasmo, ha mostrato delle idee, non originali ma dispiegate con grazia e messe in scena con acume. In un museo grandi dipinti, fuori dall'orario delle visite, si animano, si parlano, interagiscono. L'immobile ed eterno diventa umano: il giovinetto del Caravaggio, l'autoritratto di Van Gogh, la ballerina di Degas. La riflessione si sposta sul senso della riproduzione dell'arte e sul rapporto opera/autore: se il primo si sente defraudato e schiacciato dalla fama del suo deus ex machina, il secondo invece si sente un'unica cosa mentre la terza è grata al pittore che l'ha resa immortale. Il passaggio invece di un Fontana come la chiusa con la Monnalisa cercano appunto quei sorrisi che sbiadiscono le tesi gettate in precedenza e fanno scadere le buone basi che il gruppo romano aveva intavolato.
Ben altro discorso per il “Trittico della guerra” dei Guinea Pigs, già solidi, consapevoli, concreti, in una periferia metropolitana il loro sguardo si concentra sul bullismo ma anche sulla noia, sulla mancanza di alternative, sul tempo perduto, sulla stupidità del male tra giochi da commedia dell'arte, Arlecchino e Colombina, inserti pinocchieschi, il Gatto e la Volpe, le felpe nere che tanto rimandano all'Isis, alla voglia di cercare appartenenza in un mondo, il nostro, che proclama e poi abbandona, che lascia soli a se stessi tra marciapiedi e cemento, luoghi senza cura né amore.
Erostrato” con Andrea Lopez Nunes ha il difetto di miscelare troppi temi con un monologo che non riesce pienamente a tenere, passando da provini per un reality all'incontro con un sacerdote fino alla strage di Colombine, frame già sviscerati abbondantemente e legati debolmente l'uno all'altro.
Molto presuntuoso il “Talking of Michelangelo” dei padovani Madalena Reversa, lavoro concettuale dove un'infermiera con testa da gorilla (come Latini e Latella recentemente) prima, un regista con telecamera in mano e un mago non aprono riflessioni in questa summa di citazioni che confonde, perdendo di vista il senso ultimo dell'arte e del teatro: comunicare. Qui invece vince il criptico senza fondamenta, l'enigmatico fine a se stesso, l'incomprensione che getta fumo negli occhi.
Michele Frettoli con il suo “Tempo di caduta” non meriterebbe nemmeno una riga; il suo lavoro è stato arrogante e cialtronesco, senza costrutto né preparazione, rotolandosi a terra goffamente, leggendo in silenzio per minuti interi, cercando escamotage nell'empasse più assoluto, nell'imbarazzo generale, nell'immobilismo provocatorio, ora con un'armonica a bocca, adesso con un naso da clown: un'offesa per il teatro, per chi lo vede e per chi cerca di farlo.
Abbiamo apprezzato Alessio Genchi nel suo intenso e arrabbiato monologo “Fa che non è originale” scritto dal barese Nicola Capogna su temi certamente abusati e inflazionati quali precariato, conflitto generazionale e giovani da call center, ma esprimendo grande passione per la scena, ironia e voglia di provarci: “Non ho ancora trovato un lavoro ma credo che prima o poi mi sottopagheranno”. La pisana Alice Bachi invece ha recuperato con “Cajka 7050” una bella storia, quella della prima astronauta donna nello spazio, la sarta russa Valentina Tereskova, in un impianto di poltrona, tuta e casco, non riuscendo però ad imprimere umanità, verità e carne e rimanendo, purtroppo, troppo legata sul filo della cronistoria degli eventi, della scansione temporale, dell'aneddotica della cronaca. Di grande sostanza le tre giovani, Nicolai, Iregna e Marigliano, che tra hip hop e una scena semplice, un grande lenzuolo veniva usato come slogan da corteo, un mattone con una rosa dentro, hanno ricordato in “Pi amuri”, con tenacia, freschezza, impegno politico e veemenza, alcune tragiche esistenze di ragazze siciliane che hanno testimoniato contro Cosa Nostra, pagandone le conseguenze.
Grande carica d'impegno civile, ambientalista ed ecologista per “Il lago dei tigli” degli Zerocomma Zero Uno che, dopo tante strombazzature mediatiche sul successo dell'Expo, è una voce fuori dal coro, in una messinscena colorata da favola da teatro ragazzi, che ci porta dritti nella cementificazione del verde, nella distruzione dei cantieri, svelando i danni e i drammi al di là dei selfie e dei titoloni dei giornali “amici” del Premier.
Uno delle migliori operazioni è risultata senza dubbio “Suzanne”, progetto di Linda Gennari e Tamara Balducci, testo che arriva da una importante graphic novel francese che da una parte ci racconta la trincea della Prima Guerra Mondiale e la diserzione, e dall'altra si confronta con il cambio di genere di un uomo che si traveste da donna per non tornare in guerra, trasformando prima la sua estetica, poi anche le sue preferenze e il modo d'intendere il mondo. Messinscena tra le più compiute e solide dove storia, attori e regia hanno un peso, un corpo, un'unica direzione e intenzione.
Purtroppo “Donne da sistemare” delle fiorentine Gerini e Guidi, rimangia in un sol colpo decenni di lotte, di femminismo, di diritti e di coscienza di genere, di emancipazione delle donne con quel “sistemare”, ovvero mettere a posto, rendere presentabili, appunto per accasarsi, cercare marito, trovare casa e finalmente raggiungere lo scopo principe di queste femmine vecchio stampo, aspettando un maschio-Godot che di impegnarsi e responsabilizzarsi non ne vuol sentir parlare. Un plauso alla recitazione, brillante, piacevole, senza pause, senza incertezze e con grande affiatamento del trio Bernardi-D'Alessandro-Musella, tutti e tre provenienti dalla scuola dello Stabile di Torino, che, in “Arte” della Reza, hanno saputo rendere al meglio il dibattito sull'arte contemporanea e sull'amicizia maschile.
Qual è il bilancio, come sta il teatro italiano dopo la visione di queste compagnie under 35? Certamente malconcio, febbricitante, malaticcio, in convalescenza, zoppicante, la prognosi pare riservata, con qualche timido vagito di risveglio. Dopotutto “quando il sole della cultura è basso le ombre dei nani sembrano giganti”.

Tommaso Chimenti 24/03/2016

Foto (dall'alto): Alice Bachi/Gennari e Balducci/Zerocomma Zero Uno

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