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"In-Box": vince "Gianni", ma nessuna novità salvifica per il teatro contemporaneo

SIENA – A Siena confliggono due anime, quella dei turisti con i loro obbiettivi e gelati e cappellini e scarpe da ginnastica colorate, e quella antica delle contrade. Mattoni rossi e tradizioni in mezzo a tante pizzerie e kebab sorti negli ultimi anni in un mangia mangia ad ogni angolo, di cestini stracolmi e mani a scattare e nessuno che chiede più alcuna notizia o informazione sul Monte dei Paschi. Tutto messo a tacere. Il tempo è galantuomo solo per alcuni. Ogni tanto una bandiera, un foulard, un accenno acceso a qualche animale fantastico e fantasioso e mitologico e la Piazza del Campo come polo attrattivo che tutti ci spinge e ci attira ai suoi piedi in discesa. Le finali del premio “In-Box” quest'anno si sono svolte a casa degli Straligut, la compagnia senese che ha ideato il progetto. Da tre anni la fase conclusiva viene aperta al pubblico: è successo nel '14 a Firenze al Cantiere Florida, lo scorso anno dagli Scarti a La Spezia, quest'anno dislocati tra il Teatro dei Rozzi e il non agevole, geograficamente e soprattutto come visuale coperta da vetri alti e spessi che occludevano il palco, Auditorium della Casa dell'Ambiente, bello esteticamente ma assolutamente non funzionale per il teatro.astorritintinelli
Ai sei spettacoli finalisti, l'organizzazione ha aggiunto tre spettacoli di alcune compagnie che nelle scorse edizioni avevano ben figurato: gli Zaches con “Il Minotauro”, i Lab 121 (vincitori 2015) con “L'insonne” e i Vico Quarto Mazzini con il debutto di “Little Europa”. Tra i sei, lo spettacolo vincitore dell'edizione '16, e quindi che avrà la possibilità di effettuare più repliche, a cachet fisso e garantito, tra i 46 soggetti gestori di teatri, è stato “Gianni” di Caroline Baglioni con 19 repliche ottenute, “I giganti della montagna - Atto III” di Principio Attivo, 9 repliche, così come “Come un granello di sabbia - Giuseppe Gulotta”, Compagnia Mana Chuma Teatro, mentre “Il sogno dell’arrostito" di Astorri Tintinelli (4 repliche), “Luna Park - Do you want a cracker?” de Leviedelfool (2 repliche), “L'inferno e la fanciulla” della Piccola Compagnia Dammacco (1 replica).

In questa occasione parleremo delle piece di Vico Quarto Mazzini e degli Astorri Tintinelli. Il quadro generale non è tra i migliori, non è rassicurante il panorama. Partiamo dagli AT nei quali, a distanza di anni da quel “Titanic” che già vinse In Box '11 (perché hanno potuto ripartecipare?), riscontriamo gli stessi cliché e stilemi che già non ci convinsero allora. Anche questo “Il sogno dell'arrostito” parte bene, veleggia sicuro, per poi affondare poco dopo, al largo, in assenza di un pensiero al quale si possa dare l'etichetta di drammaturgia. L'idea di arrostitofondo sembra esserci, è lo sviluppo che si affossa presto e velocemente e i quadri danno la sensazione del mosaico a tavolino, del lavoro per accumulo e somma dove i guizzi e le aperture si riscontrano difficilmente e con grande fatica si procede verso l'approdo. Gli oggetti anche qui la fanno da padrone (tanti, troppi, offuscanti, abbondantemente inutili), come se la drammaturgia scaturisse dalla necessità forzata di appigliarsi, di chiedere aiuto ad arnesi vari e attrezzi artigianali che inondano la scena.
Non eravamo partiti affatto male, anzi. Mentre il lui di questo duo stralunato e beckettiano leggeva da un foglietto le varie azioni-istruzioni da compiere, lei (visivamente si incastrano fisicamente a meraviglia, lui grosso come Bruto, lei smilza come Olivia) le metteva in atto. L'assurdo prendeva la platea tra sogno e frasi poetiche e la voce di Astorri che sottolineava caldo e il corpo della Tintinelli a creare delicatezza e armonia. Sgualciti e clochard, carbonari e nascosti come appartenenti ad una setta vessata, sembravano essere in una dimensione futura (“Siamo 12 miliardi di persone”) dove, presumibilmente dopo il terzo conflitto mondiale, la tecnologia era regredita ad una sorta di pre-rivoluzione industriale. Sono operai di una ditta dai rumori gutturali (insopportabili e disturbanti, eccessivi, acuti, fastidiosi) e vengono alla mente le battaglie sindacali e i partigiani, Chaplin e Marx: “Qui si onorano i morti per mortificare i vivi”. Renzi e il suo Job's Act erano velatamente chiamati in causa. Dopo quest'inizio accattivante e pieno di senso, qualcosa s'inceppa, nei megafoni, nei suoni molesti e smodati di una gag sommata all'altra senza un vero filo conduttore, perdendo la linea, il fulcro del discorso, il centro dell'idea iniziale.

Ai VQM ci si avvicinava con attesa dopo l'“Amleto fx” che aveva persuaso e trascinato i più, anche se poi c'erano stati i “Sei personaggi” a far ricredere molti. Prendendo spunto da Ibsen, (“Il piccolo Eyolf”, 1894) questo loro “Little Europa” travisa, travalica, tradisce, metaforizza il discorso ibseniano che era portato più alla responsabilità individuale che alle vicende transnazionali alle quali sembra, forzando la mano palesemente, far riferimento il gruppo pugliese. Più performance che prosa con pochissimi dialoghi e soprattutto una voce fuori campo invasiva che tutto spiega. La tesi di fondo è che nazioni diverse e totalmente dissimili si siano messe insieme creando un mostro, un colosso dai piedi d'argilla dal nome Europa. Qui un italiano e una scandinava, in un interno hopperiano VicoQuartoMazziniscenograficamente impegnativo, tra infinite urla e grida e latrati, hanno generato un essere deforme (Gabriele Paolocà che sembra improvvisamente perdere le doti energetiche emerse nell'Amleto, qui con imbarazzo recluso dentro un infagottante costume carnevalesco kafkiano che ci ha ricordato Chernobyl), con bitorzoli tumorali repellenti, un ammasso informe disgustoso e inguardabile. Il tema è assolutamente politico e si teorizza che i problemi dell'Europa attuale derivino dall'Europa stessa facendo un esercizio di negazionismo rispetto a tutto quello che gira attorno al Vecchio Continente, non considerando la storia del dopoguerra, annullando e non prendendo in considerazione gli eventi epocali e mondiali che ultimamente hanno sconvolto l'Occidente.
Dire che l'Europa affonda per colpa dell'Europa stessa è non vedere la trave nell'occhio sottolineando la pagliuzza. Certo l'Impero Romano fu affossato prima negli ozi poi, o di conseguenza, per l'arrivo delle popolazioni barbare del nord. Quello che sta accadendo anche ai nostri vecchi e stanchi popoli immersi nei diritti e nel benessere. Non inserire nel contesto e in questo disegno la crisi economica, l'11 settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan, la caduta di Saddam e Gheddafi, la crescita esponenziale demografica e in termini di Pil di Paesi come India, Brasile e soprattutto Cina, la Primavera araba e la Rivoluzione Verde, Al Qaeda e l'Isis, per concludere con la guerra in Siria e l'arrivo di milioni di africani sulle nostre coste, è quantomeno semplicistico.
L'Europa, al contrario dell'indesiderato e non voluto bambino Europa, fu una scelta consapevole nel fronteggiare, soprattutto con la moneta unica, il dollaro statunitense a livello commerciale. Tutto da allora è cambiato, la bilancia finanziaria si è spostata e l'Europa vira verso il tracollo a causa del suo poco decisionismo, del suo lassismo, del suo poco nerbo nel fronteggiare le crisi, nell'accoglienza (vedi i fatti di Parigi e Bruxelles e prima ancora di Londra) di chi vuole mettere in dubbio il nostro stile di vita fondato su valori come libertà e laicismo. E' il perbenismo, il benpensantismo e questo cattocomunismo diffuso che ci affosserà. Se qui l'italiano (Michele Altamura) abbandona il figlio volontariamente, avuto con la svedese (Gemma Carbone, imbrigliata in un ruolo di contenimento non riesce ad emergere), nella cruda realtà i figli dell'Italia abbandonano la propria terra perché il ventennio berlusconiano ha affossato scuola e università (creare un popolo di tv dipendenti è mossa politica che si traduce in consenso o in astensionismo) non competitive a livello globale. Europa fu sedotta con l'inganno, e violentata, da Zeus che prese le sembianze di un toro, la cui testa riprodotta è appesa alle pareti di questa casa nordica. Toro che è anche simbolo di fertilità e prosperità economica (il toro davanti alla Borsa di Wall Street). L'Europa è un mostro perché il mondo è mostruoso. Il senso di colpa sulla nostra incapacità di generare bellezza oltre ad essere astorico è anche fondato su falsi miti esterofili.

Ci sono tre principali gruppi di uomini: selvaggi, barbari inciviliti, europei”. (Novalis)
Noi italiani siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria”. (Leo Longanesi)
L’Europa non è un luogo, ma un’idea”. (Bernard-Henri Lévy)

Tommaso Chimenti 23/05/2016

Foto di copertina ("Gianni"): Cristiano Proia 

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