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Il Vangelo di Pippo Delbono: preghiera a un Dio che non esiste

Una sfilata che ricorda il “Kontakthok” di Pina Bausch: donne e uomini in colorati abiti da sera, Pepe fa da apri fila; dietro di lui i componenti storici della compagnia insieme alle attrici croate del Teatro di Zagabria. Tutti vanno ad occupare le sedie già posizionate sul palco, come se si trovassero intorno a un tavolo: sono 13 e Nelson è al centro, come Cristo durante l’ultima cena, associazione che si renderà più esplicita nel proseguimento dello spettacolo, quando il corpo secco e ossuto di Nelson sarà crocefisso sul fondale. Nel silenzio della sala gli attori battano le mani e il pubblico stranamente lo segue in un applauso: è entrato il direttore d’orchestra (Gabriele Di Iorio); le musiche di Enzo Avitabile, composte per la nuova produzione di Pippo Delbono, sono infatti eseguite dal vivo dall’Orchestra e dal Coro del Teatro Comunale di Bologna.
Il lavoro di Pippo è lontano da tutto ciò che potremmo definire cavilloso, artefatto o intellettualistico, parla a tanti, è popolare e usa un linguaggio essenziale: frasi semplici, versi poetici nei cui buchi si infilano le immagini che li concretizzano. Un testo diretto, sul quale forse non è necessario interrogarsi troppo, una drammaturgia che si sviluppa per segni e associazioni, per dissonanze e contrapposizioni.
Capita a volte qualcosa che ci sconvolge, che fa soffrire, che fa impazzire e nella nostra follia guardiamo la follia del mondo: Delbono lavora così, tracciando un cammino tra la propria vita privata e l’attualità, tra la sua ossessione e la tragedia degli altri, ai quali si sente inevitabilmente accumunato.
Il suo dolore, le nostre paure, la difformità, la diversità, la violenza, l’amore e la morte: questo è il “Vangelo” di Delbono. C’è la madre - alla fine dello spettacolo Pippo stesso dice provocatoriamente «E anche questo spettacolo non posso che dedicarlo a mia madre!» -; c’è Pina Bausch, sua amata maestra, che torna come uno spirito a dare il ritmo agli abbracci stretti e ripetuti che ricordano “Cafè Muller”. C’è Cristo, il padre nostro e della cultura cristiana occidentale, c’è il rock, ci sono la guerra e la politica che incastrano e soffocano tutti noi, senza scampo per i più deboli. E, probabilmente per caso o per scelte produttive, sul palco c’è una parte di quei popoli che hanno vissuto davvero il conflitto, i croati e un ragazzo afgano, che il terrore se la portano nel cuore.
Del Vangelo vero e proprio tuttavia c’è ben poco, qualche frase sentita e risentita, ormai solita alle nostre orecchie perché troppo ripetuta in quei luoghi di culto dove si recita battendo la mano sul petto per inerzia: «Mea culpa!». Quale colpa? «Io non credo in Dio! Io non credo in Dio! Io non credo in Dio!» Delbono lo urla al microfono così come urlava e ripeteva, in precedenti spettacoli, «Dimmi che mi ami!»: disperato, incredulo, con rabbia. È il disgusto probabilmente per quella religione imposta, per le regole dettate, per i pregiudizi inculcati nella nostra cultura. Ecco che il Vangelo diviene solo un modo per parlare della sopraffazione, della rigidità delle norme, della falsità dei “credo”, politici, religiosi o filosofici che siano. Il Vangelo professato da Margherita, sua madre, fervente donna cattolica, diviene l’ennesimo atto d’amore nei confronti di questa figura e allo stesso tempo l’ultimo atto di ribellione.
Delbono riparte da dove ci aveva lasciato, da “Sangue” e da “Orchidee”: afferra l’invito che gli rivolgeva la madre in punto di morte, per continuare quel processo catartico intrapreso con il film, quella pace da raggiungere anche attraverso la morte, un’armonia che forse con “Vangelo” non riesce ancora a compiere.
È evidente un’ansia divulgativa, una necessità che probabilmente nasce da un’urgenza espressiva violenta: solo la scorsa estate Pippo mi raccontava di aver deciso di girare un nuovo film con gli immigrati, ma di conoscerne solo il titolo. Era arrabbiato con gli italiani intolleranti e razzisti, era distrutto per i suoi problemi all’occhio, per la vista che stava perdendo, per il mondo che vedeva sempre più confuso e sfocato. E questo mondo confuso e sfocato lo ritroviamo sul palco: lo spettacolo, estremamente figurativo, è caratterizzato da una ricca quantità di immagini, alcune dotate di profonda forza poetica, intersecate l’una nell’altra. Il tutto diviene un fiume di messaggi, concetti descritti dalle parole del Vangelo, dai versi di Pasolini, di Sant’Agostino, di De Andrè o dal più pop Jesus Christ Superstar. Questo vortice continuo sembra apparentemente lasciare confusi, ma, a pensarci bene, ci stordisce quasi quanto le notizie quotidiane: i morti in mare, le flotte di immigrati che chiedono asilo politico, le decapitazioni dell’Isis, i proseliti dei politici sulla difesa della Nazione, la vendita di armi, gli stupri, i femminicidi.
Tutte le scene, che assumono quasi le sembianze di dipinti, si caricano di significati attuali e di messaggi urgenti da comunicare: l’insofferenza per un mondo soffocante, dove la libertà di pensiero è ormai sempre più lontana.
Nel mezzo si inserisce il cinema, il nuovo linguaggio attraverso il quale Delbono riesce a comunicare con delicatezza e grande maestria, e che ritroviamo sempre più spesso anche nei suoi lavori teatrali: le inquadrature, nella luce vespertina dei campi, dei volti silenziosi di ragazzi immigrati; il mare, la tomba di anime coraggiose in cerca di nuove possibilità, il bar della strage di Castel Volturno.
A detta di una parte della critica lo spettacolo può a tratti risultare slabbrato o ripetitivo, ma conserva nonostante tutto la poeticità dei corpi, la forza e l’irriverenza che permette ancora al pubblico di rimanerne entusiasta, di commuoversi e di ridere. Una provocazione che fa uscire dalla sala i vecchi abbonati borbottanti, fedeli alla programmazione di un ente lirico come il Teatro Comunale.
Il teatro – è vero – non è più quello di un tempo: le donne entrano con i jeans e gli uomini non necessitano della cravatta, ma probabilmente non è cambiato abbastanza e qualche volta puzza ancora di vecchio, come recita imperterrito Delbono.Visto al Teatro Comunale di Bologna il 25 febbraio 2016

Silvia Mergiotti 05/03/2016

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